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Niamey, il fiume maestoso e le prime sorprese
Ecco la prima puntata del "diario di bordo" di Daniele Biella che ci accompagnerà a scoprire le storie delle persone che verranno selezionate per sfruttare i corridoi umanitari. «L'impatto nel Paese del Sahel è forte ed è già scandito da incontri profondi e testimonianze di proteste di cui tenere conto»
Ti svegli e già ne avverti la presenza: il Niger, uno dei fiumi più lunghi e sontuosi del continente africano, è lì che ti aspetta. Se poi è la prima volta che lo vedi dal vivo, come capita a me, il richiamo è insostenibile. Ancora prima di fare colazione, scrutarlo dall’alto – con la fortuna di stare nell’hotel di Niamey con la miglior vista sul fiume – è d’obbligo. I pescatori di carpe sono già all’opera da tempo, le risaie incastonate tra una sponda e l’altra emanano un bianco luccicante, il traffico sul ponte che collega gli insediamenti cittadini è già intenso: la giornata della capitale del Paese più povero al mondo (45% della popolazione sotto la soglia) è iniziata da tempo quando mi ritrovo, martedì 26 gennaio 2021, a scrutare il suo fiume per la prima volta, accompagnato dalle spiegazioni divertite di una guardia di sicurezza.
Arrivare dall’Italia al Niger in tempi di pandemia è già di per sé un’impresa: 17 ore di viaggio, scali a Istanbul (Turchia) e Bamako (Mali), arrivo alle prime luci dell’alba e poco sonno in albergo prima di iniziare subito il corposo programma preparato con metodi certosini da Caritas Italiana e Unhcr (Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati) in collaborazione con autorità italiane e nigerine. Cinque giorni in tutto di presenza nel Paese per seguire in particolare gli operatori di Caritas che intervisteranno il maggior numero possibile di persone destinate a essere ospitate in un luogo sicuro – in questo caso l’Italia – dopo la fuga per motivi umanitari dal proprio Paese fino in Niger.
L’immagine numero uno che mi rimane dell’inizio di questa nuova esperienza così virtuosa – il corridoio umanitario permette l’arrivo sicuro di persone profughe che altrimenti avrebbero finito i loro giorni nelle prigioni illegali libiche o in fondo al Mar Mediterraneo – è la carrellata di occhi delle prime persone intervistate dagli operatori di Caritas e dalla fondatrice dell’ong Gandhy Charity, l’attivista Alganesc Fessaha. Carrellata e storie annesse che raccontano di quanto male può fare un uomo a un altro tanto da farlo fuggire lontano da casa propria. Le interviste sono preparatorie al viaggio aereo che in primavera porterà queste persone a iniziare una nuova vita, accolte da famiglie italiane che si mettono a disposizione tramite le Caritas diocesane.
Se le interviste ai nuclei di rifugiati – alcuni di loro scappati dalla violenza terroristica di gruppi armati delle zone confinanti, su tutti Boko Haram in Nigeria – sono state programmate da Caritas ben prima dell’arrivo nel Paese, il Niger ti sorprende anche per altro: «Da qualche giorno ci sono un centinaio almeno di eritrei, più un gruppo di somali, che protestano sotto i nostri uffici», mi spiega Alessandra Morelli, capo Unhcr in Niger, mentre muovendoci tra le vie comunque operose di Niamey raggiungiamo proprio la sede centrale di Unhcr. «Capisco la loro frustrazione: avevano tutte le carte in regola per arrivare in Europa, ma con l’arrivo della pandemia le nazioni in cui avevano già trovato rifugio, ovvero Inghilterra, Germania e Francia, hanno chiuso le proprie frontiere ai corridoi».
Durante il primo briefing di questo viaggio – che ci porterà tra poche ore ad Agadez, città nigerina alle porte del Deserto del Sahara dove l’equipe di Caritas intervisterà le persone liberate dalla prigionia libica – avvenuto durante un pranzo condiviso, c’è stato il tempo anche per trattare il caso di chi sta protestando. E in poco tempo avviene una cosa a dir poco clamorosa: la “dottoressa Fessaha”, come viene chiamata dalle migliaia di eritrei che la conoscono di fama (in Italia è stata nominata Cavaliere della Repubblica dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e ha ottenuto l’Ambrogino d’Oro), d’accordo con la capo Unhcr, scende in strada e va a parlare a chi protesta: nel giro di poco tempo la manifestazione che poteva sfociare in atti di protesta violenta assume invece l’aspetto contrario e diventa pacata, dialogata e rispettosa. Merito di Alganesc, che spiega con parole ben dosate le problematiche che hanno portato al rinvio dei corridoi da parte degli altri Stati Europei. Ma merito anche al centinaio di persone presenti, che pur discutendo animatamente non ha rivolto rancore o rabbia verso la donna italo-eritrea, dotata di un carisma enorme dovuto anche alle sue molteplici esperienze di mediazione del passato.
Il tempo del primo giorno a Niamey scorre più velocemente del previsto e, schivando un gruppo di ragazzi che tra le strade polverose della capitale (sono asfaltate solo le arterie centrali) s’impegna in una partita di calcio molto combattuta, il pulmino che ci riporta verso l’hotel arriva a destinazione quando è gia tempo di tramonto: vederlo che si infuoca sulla maestosità del fiume Niger significa concludere la giornata come era iniziata, ovvero ammirando la bellezza della natura. Che è tale anche in luoghi così drammatici per le persone che qui vivono tra povertà, mancanza di prospettive per il futuro e gestione delle migrazioni forzate causate anche dal terrorismo degli Stati confinanti come Burkina Faso, Mali e Nigeria.
Chiudo questa pagina inaugurale di diario avvolgendo la zanzariera portatile nella borsa assieme a tutte le altre cose: è tempo di imbarcarsi su un volo per la città di Agadez, il caravanserraglio nigerino alle porte del Sahara, dove il viaggio entra ancora più nel vivo perché incontreremo persone rifugiate oggi molto vulnerabili a livello psicofisico dopo avere passato mesi se non anni lungo le rotte migratorie.
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