Mondo

New York, 11 settembre 2002 tra dolore e retorica

Il diario del nostro inviato: l'anno dopo di Luxor Tavella, dell'agente speciale Sanmmarco e di mister Antonio

di Ettore Colombo

NEW-YORK – “Ah, oggi è l’11 settembre. Già”. Bianca Maria Tavella, in arte Luxor Tavella perché ha cambiato nome tanti anni fa, quando da Milano si trasferì a Londra e poi a New York con il suo compagno, il pittore Jeffrey Norfolk, è la maitresse di una boutique di stracci firmati, bellissimi e costosissimi che si trova nel cuore di Soho, ‘Paracelso”. In viso Bianca porta i segni di una vita tumultuosa, di chi ha conosciuto, vestito e profumato Andy Wharol e Mick Jegger, Robert Redford e Ivana Trump, Luciano Pavarotti e Asia Argento, e i simboli di una filosofia di vita, quella taoista, che solo lo sguardo di un turista frettoloso e poco amante del vintage scambia per indiana. Forse è in virtù di questa scelta di vita che l’ha portata in Afghanistan, “sì e più volte”, ma a scegliere tessuti e stoffe per i suoi cappotti alla Dior o gli abiti alla Comme des Garcons, che Bianca non ricorda “che giorno è oggi” ed ha solo vaghe opinioni su cosa successe un anno fa, di questi tempi. Preferisce chiederti il tuo nome, Luxor, e raccontarti a quale simbologia cosmica corrisponde, preferisce ricordare il Soho e il Village vent’anni fa, prima dell’invasione commercial-coloniale che lo sta stravolgendo. Preferisce dirti che l’11 settembre di un anno fa “c’era un gran vento, brutto, impetuoso, proprio come oggi”, e che “no, io lì non ci sono stata e non ci andrò mai”. Poi ti regala “uno straccetto” dei suoi solo perché hai un bel nome e ti saluta. Ma New York non dimentica, anche se è passato un anno esatto dall’11 settembre, non vuole e non può dimenticare. Aiutano, certo, e di molto, le bandiere stars and stripes ad ogni angolo di strada, le scritte “United we stand”, Resteremo uniti, che sa molto – alla fine – di antica repubblica romana e invece si parla di un Impero grande la metà di un continente e di una città grande come altre tre. Aiutano la messe di gadgets (bicchieri, tovaglioli, posate ed ogni altro genere di prima necessità) che nei market (Deli si chiama la catena) aperti notte e giorno servono a finanziare i parenti delle vittime dell’11 settembre. Aiutano la quantità spropositata di libri – specialmente fotografici – riviste, inserti speciali dei quotidiani e scritte appese nei negozi e sui muri di ogni attività commerciale presente in città, non ultima la splendida catena di librerie Barnes&Noble dove si può leggere, bere un caffè, riposarsi. Aiuta non poco la “coscienza” di un Paese ferito, mutilato, martoriato come mai nella sua storia il senso di appartenenza ad una comunità che supera razze, religioni, sessi e lingue di provenienza, anche se non può e non potrà mai superare le divisioni sociali, le divisioni in ceti, classi, caste quasi, dove i “negri” di Harlem ad Harlem vendono opuscoli sull’Islam e sulla Palestina e a Downtown, cuore di Manhattan fanno i portieri d’albergo, quando va bene, o i lustrascarpe, quando va male. Persino a Chinatown, dove nessuno o quasi parla una parola d’inglese pur vivendo a New York da sempre, garriscono le bandiere e fanno bella mostra di sé nelle vetrine dei negozi le foto e le scritte che inneggiano al coraggio e all‚eroismo dei pompieri del FDNY o ai poliziotti del NYPD. Poliziotti, le cui macchine sembrano automobiline giocattolo e sono invece piccole macchine da guerra semoventi ed esibiscono fieri il motto “Cortesia, professionalità, rispetto” stampato sulla fiancata. Poliziotti che transennano le vie a blocchi d‚isolato, incrociando le street con le avenue, come solo a New York puoi fare perché la città – l’isola, sarebbe meglio dire, il cuore della città, Manhattan – è un susseguirsi a perdifiato di isolati che, d’improvviso, ti fanno saltare dall’elegante e trendy Lower Est Side alla chiassosa Chinatown, dall’opulenza al degrado, dai bassifondi umidi della metropoli al suo cielo. Ed è un ragazzone dal buffo nome all’italiana, come quello di molti ristoranti eleganti e richiestissimi, ma incerto persino sulla città d‚origine della sua famiglia (“Bari o Bologna, non ricordo”), l’agente speciale “Sanmmarco”, che ci spiega la durezza e la tensione di questi giorni, specialmente per chi come lui deve correre dietro ad ogni bomba o presunta bomba. Intorno a lui si svolge una piccola, pacifica ed assolutamente ininfluente manifestazione di “verdi” – in quanto scesi in piazza sotto le insegne del Green Party nella piazza di ogni corteo, Times Square – che schiere di eleganti e un po’ annoiati poliziotti come lui controllano con rigore forse eccessivo mentre sta per andare in scena la rappresentazione mediatica e nazionalpopolare dell’11 settembre. Quanta retorica, in piazza. Quanti discorsi inutili. Quanti nomi delle vittime ricordate una ad una (ultima conta, sono 2.801) che suonano come uno schiaffo a quel terzo o quarto del mondo che i suoi morti non sa più come contarli e cui certo non basta il grattacielo più sciatto e meno amato della città, quello di vetro, quanti agguerriti e disperati giovani e vecchi della città più affascinante e più amalgamata del mondo che hanno fanno e faranno altro, l’11 settembre, i giorni appena prima e quelli subito dopo. Eppure l’11 settembre è una ferita vera, un taglio che brucia molto più della montagna di sporcizia o del traffico o del caldo – i guai quotidiani di cui si lamentano i suoi abitanti – ovunque a New York. Anche dove meno te l’aspetti. A Little Italy, per esempio, o in quello che rimane di Little Italy, con i suoi ristorantini e negozietti per turisti – invasa e mangiata dai cinesi e quasi irriconoscibile anche perché gli italoamericani di nuova generazione non vivono più là, ma casoma a Nolita, a Tribeca o al Village – si prepara con cura una festa di solito gioiosa e generosa, quella che onora San Gennaro, santo rispettato e amato in città quasi quanto il patrono San Patrizio. Una festa triste, oggi, per molti italoamericani che hanno perso un parente nelle Torri Gemelle come il proprietario del negozio più centrale e più turistico dello stanco cuore italiano a Manhattan, “mister Antonio”, che esibisce con orgoglio e commozione la pagina del magazine “New York” che ritrae sua figlia Anna e i suoi due nipotini. L’11 settembre del 2001 hanno perso sotto le Torri il loro papà. “Andranno al college”, ci dice fiero il nonno tra una pila di magliette di Marlon Brando, Al Pacino e Robert De Niro ed una montagna di immaginette di San Gennaro, e “sì, ci hanno dato tanti soldi, sì, ma tutti i soldi del mondo non fanno la vita di mio genero. Un pompiere, un pompiere di New York City”.


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