Welfare

Nessuno ha ascoltato Wei

Jingsheng ha 49 anni,18 dei qualipassati nei gulag cinesi e ai lavori forzati. Liberato una prima volta nel’93,viene riarrestato.

di Paul Ricard

Wei Jingsheng è di nuovo in carcere. Rientrato in Cina clandestinamente poche settimane fa, è stato preso e incarcerato chissà dove. Quando fu espulso dalla Cina negli Stati Uniti alla fine del 1997, il più celebre dei dissidenti cinesi aveva già passato diciotto anni nel ?laogaï? (i gulag cinesi). Perché è tornato? Noi l?avevamo incontrato non più di due mesi fa e in Wei avevamo notato una nostalgia infinita e insopportabile. Era stato brutalmente proiettato in un ?universo umano? fino a quel momento sconosciuto per lui. «Vi faccio una confidenza: fino all?età di 47 anni mio padre non mi ha mai rivolto parola perché siamo sempre stati in disaccordo ideologico. Sosteneva, come alto dignitario del regime, che il partito comunista cinese poteva essere riformato dall?interno. Io, invece, ho sempre pensato che occorreva mettergli fine. C?è voluta la mia liberazione dalla prigione e la mia espulsione verso gli Stati uniti nel novembre 1997 per sentirlo dire ?I tuoi giudizi sul partito comunista cinese sono esatti?. Mi salutò per la prima volta con affetto e mi consigliò: ?Fai molta attenzione alla strategia? del tuo distacco». Dopo tanti anni di rottura e di sofferenza nel seno della famiglia Wei, l?avvertimento del vecchio uomo aveva suggellato la riconciliazione tra padre e figlio. Fu una commozione che annunciava l?irrimediabile: l?espulsione dalla Cina di Jingsheng e una nuova separazione familiare. Il prezzo della libertà… A oltre un anno da quello strappo intimo incontrammo Wei Jimgsheng in un piccolo ristorante parigino. Ma per una persona con la sua storia aprire il cuore è difficile. Lo stesso aneddoto del saluto di suo padre rivela la dimesione estrema del personaggio, un?ostinazione che lascia poco spazio al compromesso. Solo contro tutti, sotto un regime che non accetta una sola voce discordante, Wei Jimgsheng ha mantenuto sempre le sue posizioni. Nello stesso tempo questa scontrosa tenacia l?ha anche salvato dalla follia e dalla disperazione durante i diciotto anni di gulag. L?uomo non ha mai ceduto alle pressioni di un regime che gli prometteva la libertà contro una confessione scritta dei suoi ?errori? o un?abiura delle sue convinzioni politiche. La fame e le angherie hanno marcato il suo animo sin da ragazzo, ma non hanno per nulla alterato la sua determinazione. Nel 1977 supera l?esame per entrare all?università, ma il suo posto è preso dal figlio di un alto quadro tibetano del partito: la misura è colma. Scopre il vero volto del Partito comunista cinese contro il quale non smetterà più di combattere. «Il partito non cerca il bene del popolo ma cerca con ogni mezzo e a qualsiasi prezzo il proprio interesse e potere». Per avere apertamente denunciato questa perversione e rivendicato la democrazia per la Cina, nel 1978 Wei Jingsheng, elettricista allo zoo della capitale, verrà arrestato per ordine di Deng Xiaoping e condannato a un campo di rieducazione attraverso il lavoro. Il suo isolamento nel fondo di una cella, i soprusi, le botte, i ricatti psicologici, la fame e le malattie hanno profondamente segnato il suo animo, ma non hanno per nulla alterato la sua determinazione. All?oscuro di tutti gli sconvolgimenti che si succedevano nel mondo, completemente solo, comprenderà, il giorno della sua prima liberazione, nel settembre del 1993, che all?estero è il più celebre dissidente cinese. Scoprì uscendo dal carcere che il mondo aveva fatto di lui un eroe, il simbolo della dissidenza cinese, utilizzato come moneta di scambio per Pechino che pensava di poter ottenere i Giochi Olimpici dell?anno 2000 contro la sua liberazione… Incassa lo choc emozionale, e sei mesi dopo, inutile al regime, è nuovamente condannato e inviato nelle miniere di sale. Ritrova la libertà a 47 anni, a fine ?97, una libertà che speravamo di durata indeterminata. «Dovevo andare in Occidente per dire agli occidentali degli errori sui loro giudizi sulla Cina», dice. E in effetti in un anno ha percorso più chilometri che in tutta la sua vita: da New York a Parigi, passando per Taipei, Boston, Francoforte, Ginevra, Londra, Washington, Monaco… È ricevuto personalmente da diversi presidenti, tra cui Bill Clinton, dai ministri degli esteri, da presidenti delle assemblee nazionali. A tutti racconta il sistema oppressivo cinese. Ha interpellato tutte le potenze occidentali, ma il suo bilancio è sconfortante, le condanna per «la loro passività nei riguardi del regime dittatoriale di Pechino, per il loro gesticolare senza agire». Spesso nelle aule magne di tutte le università del pianeta o in piccoli comitati davanti ai responsabili delle organizzazioni internazionali umanitarie, arrivava anche a mettere in discussione la validità del «sistema democratico che non è perfetto dal momento che le democrazie non sostengono la causa della libertà in Cina». Ci raccontava: «Ho un?enorme responsabilità di fronte a quelli che mi hanno sostenuto e ai milioni di cinesi che hanno bisogno del mio aiuto». Ci diceva: «Esprimo quello che pensano i cinesi, ma il mio ruolo oggi non ha nulla di esaltante. È una pressione terribile che pesa sulle mie spalle. Non ho un solo minuto per me. Mi piacerebbe che Pechino liberasse altri dissidenti per poter condividere questo compito». Dopo diciotto anni di prigionia, egli ha riconosciuto: «La mia libertà è più dura da vivere che la mia prigionia». Il regime di Pechino sa molto bene cosa fa quando espelle i suoi dissidenti. Se ne sbarazza lanciandoli in una doppia e impossibile sfida: la libertà improvvisamente ritrovata e l?immersione brutale in un mondo occidentale totalmente sconosciuto. Per resistere alle trappole della nostra libertà, Wei è rimasto blindato e non si concede alcuna vita personale. «È troppo duro», confida una persona a lui vicina, «duro con se stesso, spietato con gli altri. Ma è così che ha vinto i gulag cinesi». Non si compiace mai, mai esulta di gioia. Dietro la terribile intransigenza di Wei Jingsheng si nasconde un?incapacità di uscire dall?esperienza carceraria precedente. Non ha mai avuto una vita durante diciotto anni e non ne ha trovata una nel suo esilio in Occidente. Una sola volta ho visto Wei Jingsheng rivelare la sua umanità profonda, ma è stato alla fine di una discussione: «Qualcuno si preoccupa dei miei sentimenti?», è esploso Wei, lasciando trasparire tutta la sua solitudine. Il Wei Jingsheng che ho incontrato era persona non ancora guarita dalla prigionia, non era ancora riuscito a dare un senso alla sua nuova vita. La strategia, invocata da suo padre, per staccarsi dal passato di prigioniero non era ancora stata trovata, e quel passato gli rodeva l?anima. Come un bambino che ha paura del buio, Wei Jingshen non sopportava il momento di solitudine che attanaglia prima del sonno. Wei non ce l?ha fatta, l?infelicità è un peso troppo grande e lui,contro tutti, ha voluto tornare. Campagna per Jingsheng e Lin Hai Lin Hai, ingegnere elettronico cinese, è stato condannato il 20 gennaio 1999 per aver diramato per posta elettronica un appello dei dissidenti. Si era procurato 30 mila indirizzi e-mali e aveva ?sparato? il messaggio su Internet. Arrestato il 25 marzo 1998, ora deve scontare 15 anni di prigione per ?incitamento a sovvertire lo Stato?. In particolare Lin Hai si è messo in contatto via Internet con un gruppo di dissidenti cinesi (con la denominazione di Vip Reference) in America che avevano collezionato 250 mila indirizzi di posta elettronica. Lin Hai aveva contatti all?interno della società cinese grazie alla sua posizione di quadro altamente specializzato. Ma perché collezionare tutti quegli indirizzi? Semplice, fino a tre anni fa la Cina non era collegata a Internet, anche per timore che ciò provocasse un?infiltrazione indesiderata di messaggi provenienti da fuori. Ma ora, a malincuore, i dirigenti cinesi hanno avviato questa avventura telematica, che però controllano con particolare sospetto. Tutti gli utenti telematici cinesi, per esempio, vengono schedati prima di poter accedere a Internet. E tutti i nodi di accesso a Internet non si allacciano direttamente alla Rete mondiale ma devono passare da un centro di controllo statale, il China Net. È qui che – con molta probabilità – i messaggi vengono analizzati elettronicamente per parole chiave in modo da individuare quelli sospetti e poter risalire alla fonte. A tal fine è stata creata una rete di controllo nelle città. Ma ora gli utenti di tutto il mondo – grazie agli indirizzi di posta elettronica esportati da Lin Hai – possono inviare milioni di messaggi con informazioni libere in Cina. Occorre avviare una campagna per la sua liberazione, diffondiamo in rete un appello per la liberazione di Lin Hai e di Wei Jingsheng da spedire all?ambasciata della Repubblica Popolare Cinese, via Bruxelles 56, 00198 Roma, tel. 0618557369.


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