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Nessuno alza la voce contro Mugabe

Lo Zimbabwe nella mani del dittatore. Ma politica e società civile in Occidente assitono senza interferire. Vita magazine lancia la polemica

di Emanuela Citterio

«Non c’è crisi in Zimbabwe», dice Thabo Mbeki, presidente del Sudafrica. Immaginate un Paese in cui 85 sostenitori dell’opposizione vengono uccisi in tre mesi e lo sfidante in un ballottaggio per le presidenziali incarcerato cinque volte. In cui la stampa è imbavagliata (secondo l’ultimo rapporto di Reporters sans frontieres lo Zimbabwe è tra i 39 governi “predatori” della libertà di informazione nel mondo). Un Paese che ha un’inflazione arrivata, secondo i dati ufficiali rilasciati a maggio dal governo stesso, al 165.000 per cento. In cui le organizzazioni umanitarie sono state minacciate di espulsione, e per un certo periodo costrette a sospendere l’aiuto alla popolazione. E ancora un presidente di 84 anni al potere da 28.

«Se si guarda alla realtà dei fatti, è evidente che Robert Mugabe, padre-padrone dello Zimbabwe è indifendibile» afferma uno dei più autorevoli africanisti italiani, Luigi Goglia, docente di storia dell’Africa all’Università di Roma Tre. «Ma è altrettando evidente che i Paesi che potevano fare qualcosa in questi mesi, in primis una superpotenza regionale, il Sudafrica, hanno invece mantenuto un atteggiamento molto “soft” verso questo regime, nonostante lo stesso Sudafrica debba gestire un flusso enorme di zimbabwani riparati entro i suoi confini».

A dire «Non c’è crisi in Zimbabwe» è stato lo scorso aprile proprio Thabo Mbeki, presidente del Sudafrica, sebbene a due settimane dalle elezioni politiche e presidenziali in Zimbabwe, avvenute il 29 marzo, la commissione elettorale non avesse ancora reso noti i risultati. «Fu uno schock ascoltare le parole di Mbeki al suo ritorno da Harare» afferma Efrem Tresoldi, direttore del World wide media center di Johannesburg, in Sudafrica. «E anche in seguito il presidente sudafricano ha continuato a sostenere la linea della “diplomazia silenziosa” nei confronti di Mugabe, linea che di fatto però si è trasformata in un tacito appoggio a un governo che ha distrutto l’economia di un Paese e imposto un regime di terrore, mettendo a tacere anche le ong e le chiese». La diplomazia silenziosa è fallita il 24 giugno, quando Morgan Tsvangirai, leader del Movimento per il cambiamento democratico, ha confermato il ritiro dal ballotaggio per le presidenziali, spiegando di non poter chiedere ai suoi sostenitori di «rischiare la vita» votando per lui.

«La posizione di Thabo Mbeki è stata quella di molti leaders africani» sostiene Giulio Albanese, fondatore ed ex direttore di Misna, agenzia di notizie dal sud del mondo promossa dai missionari. «La situazione è incandescente almeno dal 2000, da quando Mugabe tentò di emendare la costituzione e gli andò male. Ma è prevalsa una linea morbida in quasi tutto il continente. Non fa piacere che gli ex colonizzatori, come ha fatto la Gran Bretagna in questi anni con Harare, puntino il dito sull’Africa in questo modo. E anche da parte dell’Unione africana la questione di Mugabe è sempre stata presa con le pinze». Secondo Goglia le responsabilità non sono solo africane: «C’è stata poca incisività da parte dell’Unione europea, che poteva prendere una posizione più netta e soprattutto corale, invece di lasciare che emergesse solo la voce della Gran Bretagna, di fronte alla quale Mugabe può sempre agitare lo spettro del colonialismo».

Ma perché questo silenzio attorno al regime di Mugabe? «C’è difficoltà ad ammettere che gli schemi sono cambiati» afferma Goglia. «Mugabe, purtroppo, è ancora visto da molti, in Sudafrica e non solo, come l’eroe dell’indipendenza contro il colonialismo, non si è disposti ad ammettere che quel che è iniziato bene può poi avere avuto una triste evoluzione. La verità è che Mugabe e i suoi sono cambiati, non sono più quelli della resistenza contro Yan Smith (l’ultimo governatore coloniale segregazionista)». La difficoltà a condannare in modo netto il regime di Mugabe c’è anche da parte della società civile che negli anni dell’indipendenza dei Paesi africani hanno guardato a Mugabe come a un modello. A lanciare il sasso è Franco Moretti, direttore di Nigrizia, la rivista dei comboniani: «Perché così poche associazioni in Italia parlano di quanto sta accandendo in Zimbabwe?» si chiede. «Sembra che si faccia fatica ad abbandonare alcuni schemi ideologici, che in passato dividevano in modo netto oppressi e oppressori. Ma il mondo è cambiato». Proprio così: il figlio maggiore di Robert Mugabe oggi vive in Cina.

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