Maternità
Neomamme, non lasciamole sole
Episodi di cronaca come quello accaduto a Traversetolo ci interrogano sul modo in cui vengono sostenute e supportate le donne durante la gravidanza e il post partum. Secondo la psichiatra Carla Ferrari Aggradi, «ci hanno inculcato che i problemi sono nostri e che dobbiamo risolverli da soli. Viene tutto incapsulato sull’individuo e i disturbi post partum sono l’emblema di questo»
Affrontare la maternità significa andare incontro a uno dei cambiamenti più grandi – forse il più grande – nella vita di una donna. È un momento che può essere di grande gioia, ma anche una fase estremamente delicata, in cui si possono presentare difficoltà di vario genere, che possono essere davvero pesanti, se manca un’adeguata rete di supporto. Secondo Carla Ferrari Aggradi, psichiatra e psicoterapeuta specializzata nelle problematiche del post parto e nelle relazioni familiari, presidentessa del Forum Salute Mentale, a giocare un ruolo fondamentale è il rapporto con la madre della neomamma.
Iniziamo da un commento sui fatti accaduti nel parmese, dove una ventiduenne è accusata di aver portato avanti due gravidanze senza che nessuno attorno a lei ne sapesse nulla, per poi uccidere e sotterrare i neonati.
Non credo a quello che viene raccontato: non è possibile che questa ragazza abbia fatto tutto da sola e che nessuno si sia mai accorto di niente. È fuori da qualsiasi ragionevolezza. È una storia incommentabile per come viene proposta. Chi le viveva attorno non poteva non accorgersi. È stato anche detto che non mangiava per non ingrassare, ma la pancia cresce lo stesso. E, comunque, un familiare dovrebbe accorgersi anche del fatto che una persona non mangi. Le relazioni familiari hanno un ruolo importante in situazioni come questa.
Quale dovrebbe essere il quadro delle relazioni familiari per vivere la maternità in modo sereno?
È chiaro che l’ideale non è sempre realizzabile. La questione più grande – al di là dell’accettazione o meno della gravidanza – è legata al rapporto della futura madre con sua madre.
In che senso?
Se la relazione con la mamma è ed è stata buona, è molto probabile che la futura madre sarà una buona madre, per due motivi. Il primo è che ha imparato a esserlo, la seconda è che sarà aiutata. Se il rapporto, invece, è inficiato da problematiche non risolte, queste verranno fuori in un momento così delicato. A meno che non sia stato fatto prima un percorso per rompere la catena.
La famiglia quindi ha anche un ruolo nell’insorgenza della depressione post partum?
Assolutamente si. Tanto più nella nostra società, dove ormai le famiglie sono mononucleari. Un tempo la maternità era un fatto sociale: le donne vicine di casa, le amiche, le zie, le cugine, le nonne partecipavano alla gravidanza e al parto. Era una vicinanza che colmava alcune lacune del rapporto madre-figlia se era insufficiente o problematico. E che avviene solo tra donne, che devono essere consapevoli della forza incredibile che è poter dare la vita.
Si è persa quindi la condivisione con altre donne?
L’aspetto sociale si è perso e chiaramente il ruolo della madre è diventato ancora più importante: poi ci può essere anche una brava zia o un’amica di cui avere fiducia, ma non è la stessa cosa. Io ho visto donne che avevano un buon rapporto con il loro compagno e un pessimo rapporto con la madre avere dei disturbi post partum. Si tratta di persone che hanno ricevuto dalla loro mamma l’idea di essere insufficienti, di non essere adeguate e di non essere capaci. E se la portano dietro nel momento più delicato della loro vita.
Ho visto donne che avevano un buon rapporto con il loro compagno e un pessimo rapporto con la madre avere dei disturbi post partum. Si tratta di persone che hanno ricevuto dalla loro mamma l’idea di essere insufficienti, di non essere adeguate e di non essere capaci. E se la portano dietro nel momento più delicato della loro vita.
I servizi come i consultori potrebbero essere un rimedio alla perdita della dimensione sociale della maternità?
C’è stato questo tentativo di passaggio dalla comunità spontanea a una più costruita – comunque positiva – con i consultori. Se questi ultimi fossero stati mantenuti per quella che era l’idea iniziale, le neomamme avrebbero un buon supporto, grazie ai momenti di ritrovo in gruppo e con persone esperte e specialisti che le possono seguire. Anche a domicilio, se la persona non può muoversi.
Oggi che questi servizi sono depotenziati, c’è molta più solitudine nelle donne in attesa e dopo il parto.
Non è tanto una questione di solitudine, perché magari hai un compagno e una famiglia, ma se non puoi condividere le tue paure con chi sta vivendo la stessa esperienza – o l’ha vissuta prima di te – ti senti solo. Ormai tutto è centrato sull’individuo. Anche nel caso di questa ragazza: è tutta colpa sua, è lei che ha ucciso due bambini, è lei che non è capace, è lei che ha problemi. In realtà manca la comunicazione con la comunità attorno, per elaborare quello che succede. Ci hanno inculcato che i problemi sono nostri e che dobbiamo risolverli da soli. Viene tutto incapsulato sull’individuo. I disturbi post partum sono l’emblema di questo.
Ci hanno inculcato che i problemi sono nostri e che dobbiamo risolverli da soli. Viene tutto incapsulato sull’individuo e i disturbi post partum sono l’emblema di questo
Il neo papà come può essere di supporto?
Innanzitutto nell’essere d’accordo sul fatto di avere un bambino. Poi dovrebbe imparare a essere un po’ “protettivo”, che non significa considerare la propria compagna malata, ma essere consapevole che si trova in una situazione di possibile fragilità. Tutto cambia nella donna con la maternità e il partner deve imparare ad accettare e condividere questi cambiamenti, parlandone e discutendone. Il papà dovrebbe anche pensare ad aiuti diversi se la mamma ha un cattivo rapporto con la propria madre.
Ed essere lui stesso a occuparsi del figlio?
La questione grossa è che storicamente gli uomini non hanno mai dato una mano, la maternità era una questione della comunità femminile. Non è molto che le cose sono cambiate e non sempre gli uomini sono capaci di essere dei buoni compagni: la donna ha quindi anche il compito di imparare a chiedere aiuto se non viene spontaneamente. In questo è importante la famiglia di origine di lui, che può averlo educato o meno alla paternità e in generale a prendersi delle responsabilità. Serve anche un’attenzione, nel momento in cui si decide di mettere al mondo un bambino, alla propria capacità di diventare genitori. Se entrambi sono ancora molto figli, faranno fatica: prima devono avere un po’ sciolto il legame con le loro famiglie d’origine e sentirsi “adulti”.
Su questo sarebbe importante anche l’educazione sessuale e sentimentale nelle scuole?
Certo. Molto importante ma non sufficiente. La comunità adulta, tutta, deve sentirsi responsabile dell’educazione dei propri figli.
Foto di Rafael Henrique, Pexels
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