Welfare

Neoitaliani o italiani? Lo sport come spazio inclusivo

La recente vittoria di Crippa nei 10.000 metri pone l’attenzione sul problema, sempre più emergente, degli atleti di seconda generazione: giovani che fino al diciottesimo anno di età non possono vestire la maglia azzurra. Eppure, lo sport, nel suo essere linguaggio non verbale universale, è in grado di unire culture diverse e fare inclusione senza pregiudizi. Ne abbiamo parlato con il generale Vincenzo Parrinello, comandante del Gruppo Polisportivo Fiamme Gialle

di Fadia El Hazaymeh

Yeman Crippa, classe 1996, nasce in Etiopia e viene adottato all’età di sette anni da una coppia milanese. Trascorre la sua adolescenza in Trentino, dove si avvicina al mondo della corsa fino a vincere l’oro nei 10.000 metri agli europei di atletica leggera a Monaco di Baviera. Dopo Cova, Mei e Antibo, Crippa è il primo “nuovo italiano” a vincere i 10mila. Come lui, Ahmed Abdelwahed, argento nei 3000 siepi e Osama Zoghiami, bronzo nella stessa disciplina. Sono sempre di più i neoitaliani che trovano nello sport un vero e proprio spazio di integrazione, e il generale Vincenzo Parrinello ne è un testimone attendibile. Comandante del Gruppo Polisportivo Fiamme Gialle, Parrinello, da sempre convinto delle grandi potenzialità dello sport come mezzo per favorire l’integrazione, ha accolto numerosi atleti neoitaliani all’interno della delegazione nazionale.


Secondo lei, lo sport può essere considerato un mezzo efficiente per favorire l’integrazione delle seconde generazioni?

Io ho svolto questo lavoro per quarantasette anni, ho visto sempre più ragazzi di seconda e terza generazione affacciarsi al mondo dello sport e sono fortemente convinto che lo sport sia il luogo dove si può realizzare la migliore integrazione. Mi spiego meglio: se arriva un barcone con cento immigrati che vogliono lavorare e socializzare, il primo problema che ci si deve porre è quello della lingua, proprio come oggi stiamo facendo con tutti i nuclei di ucraini che sono arrivati dopo lo scoppio della guerra, insegnare la lingua è il presupposto fondamentale per la comunicazione e quindi per poter interagire, per poter vivere, per poter essere realmente inclusi. Nello sport questo tipo di difficoltà non c’è: immaginiamo dodici ragazzi che parlano dodici lingue diverse, ne mettiamo sei da una parte e sei dall’altra in un campo da pallavolo, si divertono, giocano e sono realmente integrati tra di loro in un’attività sportiva. Lo sport deve essere necessariamente una leva, un punto di partenza per un’integrazione e un’inclusione rivolta a tutti coloro che oggi per motivi diversi arrivano nel nostro Paese e non sanno come muoversi.

Considerando la storia di vita di Crippa, mi sento di dire che il suo successo sia dovuto al lavoro sinergico di tre comunità: quella adottiva, quella trentina e quella sportiva. Secondo lei, i giovani neoitaliani sono riusciti a individuare nelle Fiamme Gialle una comunità educante e inclusiva?

Io credo proprio di sì. Nel nostro ambito è di grande aiuto avere la certezza delle regole: il fatto che si sappia che vanno rispettate perché altrimenti si è fuori dalla comunità, ha aiutato molto i nostri atleti, perché a volte è l’incertezza delle regole a farsì che non vengano rispettate. Noi non abbiamo mai avuto problemi, mai. I ragazzi si sono adattati, ci sono atleti musulmani, per esempio, e ci sono delle differenze legate alla cultura, alla religione, come è giusto che sia, ma non correlate al modo di relazionarsi tra le persone.

Quindi le istituzioni giocano un ruolo fondamentale nel processo di integrazione. Le Fiamme Gialle e le altre istituzioni, come ad esempio la scuola, si incontrano per riflettere a proposito di questo tema? C’è un dialogo?

Io credo che lo sport sia veramente un veicolo e un mezzo di educazione perché riesce a parlare a tutti: noi abbiamo fatto dei campus dedicati a delle scuole che vivevano un particolare disagio, classi in cui c’erano stati casi di violenza, di droga, problemi famigliari e i ragazzi all’inizio non volevano parlare con il nostro personale perché nell’ideale collettivo “con le guardie non si parla”; alla fine della settimana hanno ringraziato i nostri tutor, hanno scritto una lettera, che io conservo, particolarmente toccante, li hanno abbracciati piangendo, e questo perché con lo sport si riescono a creare delle comunicazioni che è molto più difficile fare in altri modi. Si abbattono le barriere, perché giocando, facendo sport, si è molto più disponibili a recepire regole e consigli: questo significa che la nostra società dovrebbe sfruttare lo sport, e uso un termine che non mi piace ma rende, per far crescere, educare i ragazzi, e fare inclusione. Lo sport è un linguaggio che genera i presupposti emotivi per creare un ponte di dialogo che spesso è frenato o reso difficoltoso da alcuni preconcetti.

Preconcetti che, purtroppo, sono resi ancora più spinosi da uno scenario politico poco innovativo. Come potrebbe essere affrontata la questione della cittadinanza, considerando che gli atleti di seconda generazione non possono indossare la maglia azzurra fino al compimento del diciottesimo anno?

Sono valutazioni che deve fare il governo, probabilmente in alcune circostanze c’è un percorso burocratico che rallenta l’opportunità di essere cittadini italiani, forse è arrivato il momento di esaminare a fondo e con grande serenità la questione della concessione della cittadinanza, perché alcuni presupposti che potevano essere validi ieri, oggi vanno modificati. Bisognerebbe creare delle disposizioni che siano più aderenti alla realtà di oggi, considerando quanto velocemente cambiano gli scenari. Quindi, forse, un esame, un approfondimento, una condivisione sulle scelte che potrebbero essere più opportune si potrebbe fare, la lasciamo come raccomandazione al nuovo governo.

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