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Nelle proteste turche c’è ricchezza, il potere non la sprechi

Claudio Monge, superiore italiano della comunità domenicana di Istanbul, nel paese dal 1997, riporta a Vita.it le impressioni dopo aver visto con i propri occhi le manifestazioni a difesa del parco e la repressione governativa

di Claudio Monge

Claudio Monge, classe 1968, vive stabilmente in Turchia da dieci anni, ma la frequenta del 1997, quando iniziò a studiare la lingua frequentando i primi corsi estivi per stranieri. Dal 1999, ha studiato per quattro anni il turco e l’ottomano all’università di Strasbourg in Francia, dove ha fatto un master in Turcologia. E' attualmente il superiore della comunità domenicana di Istanbul (che conta oggi su cinque frati della Provincia domenicana di Milano/Bologna) e si occupa della biblioteca del centro di documentazione interreligiosa dell'ordine. Dottore in teologia delle Religioni, insegna all’università di Friburgo in Svizzera. E' autore di diverse pubblicazioni tra cui il recente Stranieri con Dio (edizioni Terra Santa, 2013, in allegato il profilo dell'opera). Nelle ultime settimane ha vissuto giorno per giorno le proteste per la decisione governativa di trasformare Gezi park in un centro commerciale, fino agli sgomberi di pochi gioni fa. Ecco la testimonianza diretta che ha inviato a Vita.it.

La Turchia ha fatto irruzione nella mia vita domenicana senza che la scegliessi: è stata la proposta, fattami dai miei superiori nel 1996, di integrare un progetto culturale per il dialogo interreligioso e da allora è stato un lungo cammino di conoscenza reciproca con questo paese. Dopo tutti questi anni, essere testimone di quanto sta accadendo in questi giorni mi spinge a non rimanere in silenzio. Alla luce della repressione degli ultimi giorni, la situazione attuale resta  difficile e preoccupante, perché non si vedono ancora schiarite che possano far pensare ad un percorso politico di riappacificazione.  Nello stesso tempo, come sottolinea il politologo e storico turco Baskin Oran, stiamo assistendo al parto, anche se doloroso, della nuova società civile turca, che cerca di opporsi alla tendenza tipicamente orientale al dispotismo paternalista e anche populista. Ma siamo ancora a delle reazioni pre-politiche e, del resto, più del 70% dei manifestanti scesi in piazze e strade di 85 città diverse del Paese, si è sempre dichiarato indipendente da qualsiasi affiliazione partitica e gli slogan utilizzati non sono politici.

Dopo aver assistito alle manifestazioni delle ultime settimane, resto colpito dalla straordinaria determinazione delle persone accampate a Gezi park a resistere in modo assolutamente non violento e pacifico, questo nonostante le provocazioni, la violenza deliberata e spesso sproporzionata delle forze dell’ordine e, più recentemente, la manipolazione mediatica fondata sulla “guerra della menzogna”, orchestrata dal Governo attuale. In secondo luogo, ammiro la ricchezza generazionale e delle appartenenze culturali, di chi da tre settimane scende nelle strade, pur rappresentando, in genere,  un livello sociale e culturale medio alto.

In generale provo anche un profondo senso di amarezza nel constatare come l’avidità e la sete di potere possano annebbiare le menti tarpando sul nascere le ali ad un confronto davvero democratico di idee e di visioni della società: un confronto dove la diversità è fonte di arricchimento e non minaccia. Parlando di responsabilità di questo tragico precipitare degli eventi, vogliamo prima di tutto guardare un attimo al di là delle frontiere turche? Al contrario di quanto affermano politici di mestiere o semplici blogger della domenica, che non conoscono né la storia dell’Europa né tanto meno quella della Turchia, quanto sta avvenendo in questo paese non è la prova incontrovertibile, a posteriori, dell’impossibilità di integrarlo nell’Unione europea, ma esattamente del contrario. La Ue, con la sua mancanza di visione e di progettualità, ha delle implicite responsabilità in questa involuzione del potere in seno all’Akp, il partito di Erdogan, e di questa svolta autoritaria del primo Ministro turco. Non saremmo arrivati a questo punto se l’Occidente avesse fatto politica con la Turchia e non solo affari dando un senso concreto ad anni di promesse mai mantenute. L’attuale discorso del Primo Ministro si qualifica da solo e ripropone uno schema ben conosciuto sul anche suolo italico: un consenso elettorale importante sembra giustificare qualsiasi abuso, perché interpretato come mandato incondizionato, che oggi vuole affermarsi nel segno di un’orgogliosa autarchia a dispetto di tutti i possibili interlocutori di un tempo.

Il fronte dei manifestanti, d'altro canto, è molto variegato nelle sue rivendicazioni. Un elemento che meriterebbe sicuramente di essere attentamente analizzato è quel superficiale riferimento ad Atatürk, padre delle Patria, come punto di riferimento di uno stile democratico da opporre all’autoritarismo del “sultano Erdoğan”. In realtà, il primo trentennio repubblicano non può certo essere additato come un’età dell’oro della democrazia. I due fronti che oggi si oppongono nelle piazze di Turchia, dovrebbero capire che una vera democrazia laica è il solo modo di garantire i diritti e le libertà ad ogni cittadino, credente o meno. Non c'è via d’uscita alla situazione attuale se non si superano le polarizzazioni e degli interessi di parte, per davvero discutere su di un progetto di società da consegnare alle giovani generazioni. Ci vuole visione e non piccolo cabotaggio! Qualche giorno fa, circolava un messaggio sul web: “Quando l’ultimo albero sarà tagliato, quando l’ultimo pesce sarà pescato, quando l’ultimo fiume sarà avvelenato, solo allora capiremo che non si può mangiare il denaro”. Molti manifestanti sembrano averlo capito, al contrario delle guide irresponsabili della Turchia di oggi, e non solo di essa.

Testo raccolto da Daniele Biella

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