Il caso
«Nelle parole del ministro Valditara, tre elementi gravi e superficiali»
L'intervento del ministro Valditara alla presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin, ha fatto molto discutere. Secondo il sociologo Stefano Ciccone, fondatore di Maschile plurale, «All’incontro è stata molto forte la distanza tra chi rappresentava le istituzioni di governo e chi rappresentava la società civile».
«Occorre non far finta di non vedere che l’incremento di fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da un’immigrazione illegale» ha usato queste parole il ministro Valditara nel suo videomessaggio alla presentazione alla Camera dei deputati della Fondazione Giulia Cecchettin. Un intervento da molti considerato fuori luogo, visto che del dramma della famiglia Cecchettin è artefice proprio un “bravo ragazzo italiano”. Il ministro ha anche affermato che «Il patriarcato è morto 200 anni fa ma certamente il patriarcato, come fenomeno giuridico, è finito con la riforma del diritto di famiglia nel 1975». Le frasi del rappresentante delle istituzioni hanno raggelato l’uditorio, all’interno del quale c’era anche Stefano Ciccone, sociologo, fondatore, tra gli altri, dell’associazione Maschile plurale e membro del comitato scientifico della Fondazione Cecchettin.
Qual è il suo commento all’intervento del ministro Valditara?
In sala c’è stato un certo imbarazzo, che poi è diventato anche silenzio quando ha finito, non c’è stato il grande applauso – anche formale – che di solito c’è in queste occasioni. Il ministro ha detto tre cose molto superficiali e anche piuttosto gravi.
Cioè?
Di fronte al dramma della famiglia Cechettin, di una ragazza uccisa – com’è stato detto – per mano di un “bravo ragazzo” italiano, Valditara ha di nuovo raccontato l’idea che la violenza viene dagli stranieri, che quando arrivano in Italia devono imparare la nostra cultura di rispetto per le donne. Gino Cecchettin, poi, ha esplicitamente detto: «Non ho una fede religiosa, quindi davanti alla morte di mia figlia non posso pregare, ma posso sperare di produrre un cambiamento». Il ministro ha avuto l’impertinenza di dirgli – e questo è il secondo, grave, elemento – «Guarda, tu non lo sai, ma in realtà stai comunque pregando secondo la cultura cattolica di questo Paese». Non c’è stato nessun rispetto per la storia e la personalità di qualcuno che sta raccontando il proprio dramma.
Il terzo elemento, invece, qual è?
Ha affermato che il patriarcato non c’è più da quando è cambiato il codice di famiglia. È abbastanza singolare che un ministro dell’Istruzione, che quindi si occupa proprio dei processi culturali e della formazione delle persone, pensi che un fenomeno così profondo come la cultura patriarcale, i modelli familiari, i rapporti tra donne e uomini possano cambiare semplicemente perché cambia una piccola norma del codice civile riguardante i matrimoni. Questo è il segno di una grande ingenuità, o forse è il segno di quanto il patriarcato sia ancora radicato nella nostra cultura, tanto da essere difeso da un ministro. Questo contrasta, in qualche modo, con tutte le iniziative culturali di partecipazione, che tendono a costruire una riflessione critica su questo tema.
Quali conseguenze può portare il fatto di avere una persona che la pensa in questo modo al governo?
In questo momento è in atto una grande riflessione collettiva, una ricerca, un percorso di trasformazione e sicuramente le istituzioni come la scuola, l’università, le sedi della ricerca sono i primi luoghi di lavoro su questo. E se chi governa queste istituzioni si oppone e contrasta questo percorso di consapevolezza tutto diventa più difficile. Sicuramente all’incontro alla Camera è stata molto forte la distanza tra chi rappresentava le istituzioni di governo e chi rappresentava la società civile, fondazioni, università associazioni. Esiste una società molto avanzata che riflette criticamente su questi temi, ma c’è una rappresentanza politica che sicuramente è molto indietro rispetto anche a risultati assodati del nostro vivere civile.
Se sono rappresentanza, però, significa che sono stati votati. Questo vuol dire che la maggior parte del nostro Paese la pensa come il ministro?
Secondo me no. C’è una larga parte del Paese che nella propria vita privata, nelle proprie relazioni fa tutt’altro, ma si appella in modo identitario a una difesa di feticci come la famiglia tradizionale, la virilità, l’eterosessualità, che non hanno nulla a che fare con ciò che poi viviamo quotidianamente. Diventano però un elemento di rassicurazione, e questo vale anche per i riferimenti alla religione, usata come clava identitaria contro gli altri. C’è una grandissima contraddizione – forse ipocrisia – nella costruzione di questi termini. Ovviamente non possiamo negare che queste culture scavino su un elemento importante che è la paura, il disorientamento delle persone, la solitudine, la frammentazione sociale e – parlo da uomo – lo smarrimento maschile.
Gino Cecchettin ha detto: «Io di fronte alla mia tragedia voglio essere un attore di cambiamento, perché so che può migliorare anche la mia vita e la vita degli uomini»
In che senso?
Quello con cui dobbiamo fare i conti è soprattutto una crescita del vittimismo maschile, una crescita della percezione del cambiamento, della libertà delle donne e della trasformazione delle relazioni familiari, come una minaccia. È entrato in crisi il modello tradizionale maschile del capofamiglia, dell’uomo padrone di se stesso e artefice del proprio futuro, che non ha bisogno di niente e di nessuno. Su questa crisi si innestano retoriche populiste, vittimismo aggressivo e complottismi. Dobbiamo provare a offrire una prospettiva che racconti il cambiamento anche agli uomini come un guadagno e una conquista. Gino Cecchettin è stato proprio questo: un padre che non ha ceduto alla rabbia e al rancore, non ha ceduto alla nostalgia per l’ordine patriarcale tradizionale, ma ha detto: «Io di fronte alla mia tragedia voglio essere un attore di cambiamento, perché so che può migliorare anche la mia vita e la vita degli uomini».
La nostra responsabilità è dare visibilità al cambiamento maschile, non lasciare che venga risucchiato solo dal revanscismo rancoroso e frustrato della misoginia, che oggi è il terreno più importante di conflitto
Quindi è questo l’esempio maschile che dovrebbe delinearsi per il futuro?
Dobbiamo provare a costruire una posizione maschile che oggi non è in campo. Oggi in campo c’è il revanscismo maschile misogino vittimista, quello che sfrutta il disagio dei padri separati per strumentalizzarlo. Oppure l’ipocrisia degli uomini che difendono le donne dagli altri uomini cattivi. C’è l’insofferenza maschile contro la “dittatura del politicamente corretto”. Ma in realtà ci son anche tanti uomini che hanno iniziato a cambiare la propria vita e a mettersi in relazione con la libertà delle donne senza inseguire il modello virile tradizionale, padri che si prendono cura dei figli. La nostra responsabilità è dare visibilità al cambiamento maschile, non lasciare che venga risucchiato solo dal revanscismo rancoroso e frustrato della misoginia, che oggi è il terreno più importante di conflitto. Le politiche regressive, xenofobe e identitarie fanno leva su questo disagio maschile per farne uno degli elementi forti contro il cambiamento.
Quindi sono un po’ superati anche i movimenti femministi separatisti, che tendono a trascurare il ruolo degli uomini?
L’impegno degli uomini al cambiamento è una responsabilità degli uomini. Non devono essere le donne ad accoglierci in un impegno. Il separatismo femminile del femminismo negli anni ‘70 è stato necessario per produrre una rottura e per costruire un percorso di consapevolezza e di autocoscienza femminile. Oggi possiamo costruire una battaglia comune di uomini e donne per il cambiamento, ma perché ciò avvenga è necessario che la parte maschile si prenda le sue responsabilità di costruire una propria riflessione autonoma a mettere in relazione con i femminismi di oggi.
In apertura Gino Cecchettin durante la presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin nella Sala della Regina della Camera dei deputati, Roma, Lunedì, 18 Novembre 2024 (Foto Roberto Monaldo / LaPresse)
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.