La clientela viene da noi poiché manteniamo da sempre elevati standard etici». In un?intervista rilasciata tre settimane fa al Sole 24 Ore, Evelyn Rothschild sintetizzava così il ?segreto del successo? della pluricentenaria banca di famiglia. Una banca d?affari per super ricchi, prima in Italia nel segmento fusioni e acquisizioni (20,4 miliardi di dollari), di cui si appresta a lasciare le redini al cugino Baron David. E aggiungeva: «La clientela l?abbiamo sempre seguita con cura, guardandoci bene dal mandare un banchiere anziano a ottenere mandati e giovani apprendisti a eseguirli. In tal modo abbiamo guadagnato la fiducia dei clienti». E sì che il blasonato istituto anglo-francese se l?era vista brutta negli anni 90, essendo stato più volte additato come vittima predestinata delle manie di gigantismo delle banche d?affari americane che in quel periodo avevano fatto man bassa di gloriose ?boutique? del credito come SG Warburg, Smith New Court, Schroders. Ma, evidentemente, grazie all?etica e alla fiducia della clientela il pericolo della perdita dell?indipendenza era stato brillantemente schivato.
Anche in Italia, negli ultimi dieci anni, molte banche sono state prese da simili, irrefrenabili manie di grandeur. A scatenarle, l?introduzione, dopo 57 anni, di una nuova legge bancaria (Testo Unico n. 385/1993). Mentre con la legge del 1936 veniva fissata una netta separazione tra banche e imprese, con il nuovo provvedimento si sanciva la fine del divieto e l?apertura verso il modello della cosiddetta ?banca universale?. Una banca polifunzionale che, alla tradizionale attività di erogazione del credito, avrebbe potuto unire quella della banca d?affari. Apriti cielo. Di lì a poco le nostre principali banche nazionali cominciano a lanciarsi in spericolate operazioni di acquisizione e fusione. La parola d?ordine diventa ?crescere per competere? e, per metterla in pratica, si ricorre alla più classica delle ricette: non badare a spese. Non passa giorno senza che vi sia l?annuncio di una qualche operazione di ristrutturazione a costi ben superiori ai valori di mercato (tanto, è il leit motiv di chi le orchestra, verranno recuperati dalle economie di scala) e l?ottimismo dei nostri banchieri sembra granitico. Fino a quando, come ricorda il professor Ruozi nell?intervista che pubblichiamo, i nodi vengono al pettine: crisi strutturale della redditività dell?intermediazione creditizia tradizionale; modesta attività collegata ai mercati mobiliari; drastica riduzione dei lavori di consulenza; forti sofferenze relative ai finanziamenti ai grandi gruppi; difficoltà organizzative connesse alle concentrazioni e molto altro ancora.
Tutto d?un tratto, quindi, viene a galla che, per esempio, gli istituti di credito scoppiano di esuberi (Banca Intesa, 7.800; Capitalia, 4.046; Sanpaolo-Imi, 700, per citarne alcuni); che, come denuncia Giovanni Lasagna,presidente di Federconfidi, il credito alle Piccole e medie imprese va sempre più prosciugandosi; che le banche italiane, come afferma il ministro dell?Economia, Giulio Tremonti «sono incapaci di accompagnare la crescita industriale»; che gli utili calano inesorabilmente (di oltre il 30% solo nell?ultimo anno, secondo il rapporto Abi sui bilanci al 30 giugno 2002, a fronte, comunque, di un incremento di patrimonializzazione di quasi il 9%); che la trasparenza non di rado è un?optional (come i casi dei bond argentini e della Cirio testimoniano); che la reputazione delle banche presso i clienti va progressivamente peggiorando: dal 1996 al 2001, ha stimato la società di consulenza McKinsey, è calata del 17%; il tasso di abbandono è raddoppiato dal 4,6% all?8,6%, soprattutto tra i clienti affluent e tra le ragioni di ?infedeltà? spicca l?insoddisfazione per il servizio ricevuto (63%); la bassa soddisfazione nella relazione con la banca (31%); le migliori offerte (25%). Insomma, un pianto greco. Che, naturalmente, non tocca indistintamente tutti i gruppi e tutte le tipologie di istituti creditizi. Ma che la dice comunque lunga su quanto ci sia da fare per recuperare efficacia, efficienza e democrazia economica.
In tal senso è lodevole l?iniziativa ?Patti chiari? dell?Abi, per dare ai clienti più limpidezza su tre attività cardine: il credito, i conti correnti e il risparmio. Ma, come ha ammesso lo stesso direttore dell?associazione, Giuseppe Zadra, è appena «un primo, importante passo». La stessa decisione di due anni fa di Unicredit e ora di Monte dei Paschi di uscire dal settore delle armi, visti i giorni che viviamo è una lungimirante declinazione concreta di questo slogan. Ma, in ogni caso, la posta in palio è davvero alta: la ricostruzione del tessuto di fiducia con la clientela, un?impresa temeraria per il nostro Paese dove, come ammoniva di recente Marco Onado, «la tattica del successo commerciale a breve termine continua a prevalere sulla strategia di tutela del cliente nel lungo periodo».
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