Mondo

Nel villaggio degli ex lebbrosi. Vivere senza piet

Abdel Moneim Ryad è un agglomerato di case a 40 chilometri da Il Cairo. Ma ha una storia unica: è stato fondato dai malati dimessi dal vicino lebbrosario.

di Alessandro Di Gaetano

Forse nascono così gli slums alle periferie della città. Ci si accampa in qualche posto per motivi di comodità, vicino a un fiume, o addirittura ai campi da coltivare. Prima qualche riparo di cartone, poi una sequela: diventano capanne misere, riparo per una vita ai limiti. Dopo un po? qualcuno comincia a costruire mura con un tetto, come ha sempre visto fare, magari, nel suo villaggio. Giusto due stanze in banco (fango e paglia), con il tetto di canne e ancora fango, magari anche un po? di cartone. Niente cucina, figuriamoci il bagno. Anche Abdel Moneim Ryad sarà nato così, un agglomerato di capanne come un altro a 40 chilometri da Il Cairo, oltre l?aeroporto. Delle dune ci fanno capire che la città ancora non è arrivata a inglobarlo, è ancora isolato. Ed è facile capire perché questo villaggio è nato qui. Sorge a brevissima distanza da Abou Za?abol, un ospedale creato alla fine degli anni 20, oggi il più grande lebbrosario del Medio Oriente. Allora, la terribile malattia, chiamata morbo di Hansen dal norvegese Armauer Hansen che ne scoprì il bacillo, flagellava l?Africa, e non solo. Con questa struttura si era cercato di dare un riparo e un riferimento alle moltitudini colpite. Una famiglia allargata Da quella scoperta, per fortuna, la sconosciuta malattia cominciò a far meno paura e a essere curata. Le terapie con il tempo si sono evolute e le spaventose storpiature o le amputazioni, dovute all?avanzare della malattia, sono state ridimensionate. Ha qualcosa di clamoroso questo villaggio, conoscendone la storia. I pazienti del vicino ospedale, una volta guariti, avrebbero dovuto far ritorno alle loro case, ai loro villaggi. Ma la società contadina, con le sue leggi e le sue paure, non accettava più i suoi figli, i suoi fratelli, benché guariti. Ripudiati dalla famiglia, o perché avevano paura loro stessi a tornare, gli ex lebbrosi hanno cominciato a stabilirsi poco distante dal lebbrosario. Era l?unico posto dove potevano avere un po? di soccorso, qualcosa da mangiare e non di meno un po? d?umanità. La vita in comune ha creato nuovi rapporti, stretto amicizie, trovato affetti, creato famiglie. Ancora oggi la relazione tra il villaggio e l?ospedale è strettissima. Alcuni malati vivono nel villaggio ma si fanno fare le medicazioni e seguire nelle cure in ospedale. Dalle famiglie dei pazienti sono nati figli, che sono cresciuti e oggi hanno a loro volta dei figli piccoli. Certo, alcuni negli anni hanno contratto il bacillo, date le condizioni igieniche e sociali. Ma molti no. Alcuni sono andati a vivere altrove, lavorano, hanno studiato o lo stanno facendo, qualcuno si è addirittura laureato. Da una speranza di vita pari allo zero, in questo posto sembra sia invece nato un riscatto alla vita che prima, con la malattia, li voleva nell?oblio. Una donna rimpiange la sua vita, ma senza disperazione. Era giovane e bella, dice, e voleva conquistare il mondo. Poi a 15 anni la comparsa del morbo. Da allora è stato un continuo peggiorare. Oggi, a quasi 80 anni, 65 dei quali passati nel lebbrosario. È relegata in un letto da cui non può più muoversi. Non le sono mancati gli affetti, ha trovato amici cari e la vita è passata comunque con le sue gioie e le sue tristezze. Unico rimpianto, non essersi mai allontanata da quel posto. L?ospedale, e quindi il villaggio, erano entrati prima nell?interesse della Caritas egiziana, circa vent?anni fa, poi nella vita delle sorelle comboniane. Era proprio uno slum ciò che trovò suor Lina, una comboniana italiana, una quindicina di anni fa. Le pazienti Sorelle Oggi la paziente lungimiranza della Caritas e delle sorelle ha creato una scuola alle porte del villaggio dove tutti i bambini imparano a leggere e a scrivere. C?è uno spazio per giocare, sale per riunioni. Le donne imparano a cucire e i rudimenti dell?igiene femminile e della casa. Suor Lina è certa che questa attenzione all?igiene abbia frenato l?espandersi della malattia negli ultimi anni. Anche il livello del villaggio si è evoluto. Con l?esempio come punta di diamante, sono riusciti a infondere nelle giovani generazioni la cognizione della casa non come solo riparo. Ora sono composte anche da bagno e cucina e le donne fanno più attenzione alla loro salute e i bimbi sono molto seguiti nei primi anni di vita. La sporcizia era il vettore più forte per il diffondersi della lebbra ed è qui che suor Lina è intervenuta a sostegno delle sorelle che lavorano nell?ospedale. Con aiuti mirati, hanno messo alcune famiglie in condizioni di sostenersi e crearsi piccole attività. Macchine da cucire hanno permesso a qualcuna di sostenersi con lavoretti di rattoppo o di camiceria. L?aria che si respira nel villaggio, come tra i reparti, è di una serena accettazione della malattia. Che spesso, grazie alle cure e alla calma delle sorelle, dei dottori e degli infermieri, sfocia nell?allegria. Ammalarsi per molti significa perdere tutto: affetti, casa e rispetto. Ritrovarsi in un ambiente sereno, ben organizzato, tra sofferenze simili, dove altri malati hanno trovato addirittura moglie, hanno cresciuto figli e costruito case, è una sorpresa che ben dispone verso la vita. Vuol dire che anche così, anche per loro, la vita continua.


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