Welfare
Nel sonno dei politici la droga è tornata ad essere una questione politica
L’ultima vicenda della morte dei due ragazzi di Terni, Gianluca e Flavio, e del padre e figlio di Lido di Camaiore ha ridestato nell’opinione pubblica l’urgenza di tornare a parlare di emergenza educativa e di piani di prevenzione, a presidiare i principali luoghi di aggregazione e ritrovo. Ma attenzione ai richiami morali e alla riproposizione di pur necessarie campagne di prevenzione, alcune ormai logore nella ratio e dunque da ripensare
Partiamo da questa considerazione: ogni sostanza, ovvero ogni forma di dipendenza, sospinge alla ricerca di un bisogno di piacere e di una ricompensa immediata. La droga finisce così per essere adoperata come autoterapia tesa a ridurre i “pensieri negativi”. Nelle biografie univoche dei nostri giovani e meno giovani si presenta un “buco”, che si cerca maledettamente di turare. Esso indica, con evidenza, trapassi nel tempo verso una realtà dove si fa fatica ad orientarsi con scopo e conseguono vite povere di elementi identitari. Tutto nasce da un vuoto, da una assenza di elementi valoriali. La sostanza viene investita di un grande valore simbolico: diventa oggetto e mezzo di espressione di disagi, si traduce in moneta di scambio affettivo.
Nella mia breve esperienza di operatore presso la Comunità Incontro, nell’ascolto quotidiano, ho più volte riscontrato questa mancanza di infuturazione di contro a pensieri corti in grado di non immaginare nulla che sappia andare oltre il bar di stasera, la partita di calcetto, niente che possa introdurre elementi di sblocco, ovverosia inverare esperienze capaci di segnare un passaggio da un piacere immediato al piacere mediato.
L’ultima vicenda della morte dei due ragazzi di Terni, Gianluca e Flavio, e del padre e figlio di Lido di Camaiore ha ridestato nell’opinione pubblica l’urgenza di tornare a parlare di emergenza educativa e di piani di prevenzione (addirittura evocando un Piano Marshall!), a presidiare i principali luoghi di aggregazione e ritrovo.
Ma attenzione ai richiami morali e alla riproposizione di pur necessarie campagne di prevenzione, alcune ormai logore nella ratio e dunque da ripensare.
A tal proposito, nel totale sonno della ragione della politica – la droga è una questione pubblica, culturale e sociale e pertanto politica – è bene ricordare che il nostro sistema di prevenzione e assistenza è fermo agli anni novanta del secolo scorso – nel mentre sono cambiate sostanze, modalità di assunzione, di approvvigionamento e contesti di riferimento. Per non parlare dei servizi pubblici per le dipendenze che risultano tarati su logiche e prassi di lavoro non totalmente rispondenti ad un target così giovane e appartenente alla fascia scolastica, in sintesi ad un fenomeno estremamente più articolato di quanto le categorie interpretative attuali possano cogliere. Sul sistema di cura sarebbe auspicabile studiare modalità di coordinamento organizzativo tra i Serd e i servizi psichiatrici in virtù di una comprovata correlazione tra dipendenze e sindromi unitamente alla necessità di differenziare e integrare i percorsi terapeutici rispetto alla popolazione adulta.
Credo fermamente che occorra un ripensamento culturale. Proviamo a far convergere ogni sforzo – nella definizione prima e costruzione dopo – di un patto intergenerazionale, capace di trasformarsi in contratto educativo.
In questa crisi del “simbolico” che spinge i ragazzi a desiderare “viaggi di allucinazione” alla ricerca di uno stato ingannevole di beatitudine, un “finto pieno di una vita vuota” (Davide Rondoni), ciascun interprete, avvalorato alla crescita e all’accompagnamento dei nostri ragazzi, ritrovi la verve di una proficua relazione “fianco a fianco”, nell’individuazione di scopi attivi determinati mediante un lavoro di mediazione simbolica. Se non riusciamo ad ampliare gli orizzonti assistenziali con progettualità di scopo, la partita educativa sarà davvero complicata.
L’insegnante, seppure in una più ampia cornice di definanziamento della scuola pubblica, non può rinunciare ad essere più coraggiosamente attento alle singole storie, ad osare nuove modalità di insegnamento, meno frontali e più circolari, a rinunciare all’espletamento di alcune parti del programma per ritrovare l’ardore di farsi ascolto “attivo ed empatico” delle paure, delle fragilità.
Impegniamoci, con maggior guizzo di responsabilità sociale e collettiva, a parlare loro di ideali, di ragioni alte e altre che siano in grado di meritare un impegno per la libertà, quella vera e non determinata da una chimica diabolica perché seducente! Ma è certo che questa operazione di incitamento richiede il coraggio di una testimonianza adulta coerente. A questo siamo tutti consapevolmente chiamati: senza la forza dell’esempio ogni tentativo è destinato a incepparsi.
La cura, parafrasando un’espressione di Recalcati, non può non svolgere lo stesso ruolo di una madre: abbiamo bisogno di una prospettiva che sottolinei il prendersi cura come anima della moralità. La cura è farsi carico del bisogno dell’altro, è assunzione di responsabilità, è obbligo di attenzione.
Se la droga è già stile di vita socialmente accettato, non si ha più tempo di indugiare. Non possiamo non sentirci moralmente obbligati a questo passaggio generazionale, a dedicarci con serio impegno a questo problema.
*Caritas Diocesana Cassano all’Jonio
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