Salute

Nel regno dell’Aids il condom non basta

Nell'ultima monarchia assoluta dell'Africa è malato il 43% del milione di abitanti. Un record mondiale. «Il preservativo è un elemento importante, ma in questa battaglia non è decisivo»

di Redazione

Il regno dell’Aids si chiama Swaziland e, naturalmente, è una monarchia. Il sovrano, Mswati III, è conosciuto da tutti come “il leone”, con tanto di stemma sulle limousine reali che sfoggia durante le parate, e nel 2006 per festeggiare il suo ventennio al potere ha promulgato una nuova Costituzione che, oltre a mettere fuori legge i partiti politici, lo ha auto-incoronato monarca assoluto. L’ultimo dell’Africa.
Confinante con il Sudafrica, lo Swaziland è lo Stato più piccolo e meno popolato della regione. I suoi abitanti, infatti, superano di poco il milione di unità, ma vantano la percentuale record di prevalenza, ovvero la porzione sul totale della popolazione di uomini, donne e bambini affetti da Hiv. «Qui sono il 43% su 1,1 milione di abitanti ad avere l’Aids, poco meno di mezzo milione di persone, un triste record mondiale», spiega a Vita Sophia Mukasa Monico, avvocatessa che scelse anni fa di venire in Italia per conseguire una seconda laurea in lingue moderne e che in un italiano perfetto ci spiega che «oramai sono 14 anni che mi occupo di Hiv». Sophia lavora a Mbabane, la capitale amministrativa dello Swaziland, ed è la punta di diamante, per conoscenze ed esperienza sul campo, dell’Unaids, l’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa della pandemia che rischia in pochi decenni di sterminare la popolazione del piccolo regno.
«La nostra strategia», spiega, «consiste nell’uso costante della combination prevention, un mix di strumenti che, se usati assieme, possono aiutarci a limitare i danni e ad avere una speranza per il futuro della mia gente». Astinenza, fedeltà coniugale e condom, il classico “ABC” ma, spiega, prima di tutto c’è l’informazione – sulle modalità con cui si trasmette il virus ma anche sulle trasfusioni sanguigne – che passa attraverso la stretta collaborazione sia con le altre agenzie Onu presenti in Swaziland, e che sono tutte concentrate nella lotta all’Aids, sia con le reti di ong, nazionali ed internazionali. Dalla Cango, una rete di 70 organizzazioni non governative che riunisce la società civile locale, alla Swapol, acronimo di “Swaziland for Positive Living”, un’organizzazione di malati di Aids, alla Swannepha, un vero e proprio network che mette in contatto i sudditi di Msawati III che convivono da anni con la pandemia. Grazie alle cure combinate con gli antiretrovirali, la vita media di chi ha contratto il virus è aumentata di molto. Questo spiega in parte la percentuale altissima di malati. Il problema vero, il dato più preoccupante rimane però il dato di «incidenza dell’Hiv, che è pari al 3%, il che vuol dire che ogni anno un ulteriore 3% della popolazione contrae il virus», racconta Sophia che, tuttavia, tiene a sottolineare come Unaids collabori anche con i missionari e, in particolare, con le suore cabriniane della regione di Lubambo «che fanno un lavoro ottimo, soprattutto perché aiutano i malati più poveri, quelli che non si possono permettere neanche le cure di base e il cibo». E con il preservativo, su cui sono scoppiate molte polemiche ultimamente, come la mettiamo? «Ognuno deve fare ciò che meglio conosce, noi naturalmente lo consideriamo un elemento importante per vincere la guerra contro l’Hiv, ma non possiamo pretendere che anche le suore cabriniane facciano lo stesso». La soluzione? Per Sophia non ci sono dubbi, «lavorare tutti assieme. Ciò che manca di più è una leadership politica globale che ci consenta di fare la differenza perché ciò che combattiamo è molto forte e, quindi, dobbiamo andare oltre l’individualità».

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