Welfare
Nel Recovery plan solo lo 0,1% delle risorse complessive previste destinate alle persone con disabilità
Una scelta non solo iniqua ma miope, anche in chiave di futura crescita economica quella del Governo e del presidente del Consiglio. Si perde una grandissima opportunità, quella di passare da un welfare prevalentemente riparativo e assistenziale a un sistema capace di promuovere appieno il diritto di tutti, anche delle persone con disabilità
di Lisa Noja
Il 16 dicembre 2020, nel suo intervento innanzi alla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, dopo aver rivendicato la sua scelta di mantenere in capo alla Presidenza del Consiglio la delega sulle politiche per la disabilità quale chiara assunzione di responsabilità, il Premier ha giustamente sottolineato come, durante la pandemia, “i disagi e i sacrifici richiesti a tutti i cittadini sono evidentemente ancora più gravosi per le persone con disabilità e per le loro famiglie” e come, anche da tale consapevolezza, derivi l’impegno del Governo a investire sull’inclusione delle persone con disabilità quale “segno di civiltà e di equità sostanziale, ma anche fattore di maggiore resilienza”.
A fronte di parole così importanti, era legittimo aspettarsi che la disabilità avrebbe avuto uno spazio adeguato nella bozza del Recovery Plan italiano presentato nei giorni scorsi, che proprio nella resilienza individua uno dei sue due principali obiettivi. Purtroppo, al momento, tale aspettativa è rimasta delusa ed è per questo che, tra le 62 osservazioni a tale Piano formulate da Italia Viva, una è specificamente dedicata alla grave mancanza di progettualità destinate alle persone con disabilità.
Infatti, se la prima versione del Piano di Ripresa e Resilienza menziona un titolo, “interventi per la disabilità”, che però era totalmente privo di contenuti, nel documento diffuso successivamente, nel quale i singoli progetti dovrebbero essere declinati in modo più dettagliato, troviamo solo due progetti sul tema, per la verità, con obiettivi tanto ampi e ambiziosi quanto vaghi e con destinazione di risorse davvero molto limitate.
Il primo progetto sarebbe finalizzato a “stimolare gli investimenti per l'abbattimento delle barriere all'istruzione, attraverso il rafforzamento dei servizi di assistenza sociale per gli studenti universitari e AFAM con disabilità”. Si parla di iniziative messe in atto dalle singole Università per l’integrazione degli studenti con disabilità attraverso “l’ausilio di un supporto tecnologico dedicato e interattivo”, di “migliorare la loro inclusione sociale nell’università” e di “creare un sistema di servizi universitari personalizzato e integrato”. Non solo mancano indicazioni più precise e concrete, ma soprattutto è chiaro che non si tratta di interventi strutturali, considerata l’esiguità delle risorse impegnate (solo 40 milioni di euro), del tutto insufficienti ad affrontare l’enorme tema della formazione dei ragazzi e delle ragazze con disabilità. E questo nonostante l’impatto terribile del Covid sui percorsi di inclusione scolastica e formativa degli alunni con disabilità. Al riguardo, i dati pubblicati da ISTAT sono impietosi: tra aprile e giugno 2020, oltre il 23% degli alunni con disabilità (circa 70 mila) non ha preso parte alle lezioni a scuola e, come era prevedibile, queste mancanze sconfortanti sono prevalentemente legate alla gravità della patologia, alla difficoltà dei familiari a collaborare e al disagio socio-economico. A testimoniare come siano stati colpiti i più vulnerabili tra i vulnerabili.
L’unico altro progetto dedicato alla disabilità si intitola “Azioni mirate al potenziamento dei processi di deistituzionalizzazione, di supporto alla domiciliarità e all'occupazione delle persone con disabilità”. Anche in questo caso obiettivi amplissimi, che vanno dall’aumento di servizi sociali e sanitari di comunità e domiciliari, al supporto delle persone con disabilità “per rinnovare gli spazi domestici in base alle loro esigenze specifiche”, alla “riduzione delle barriere di accesso ai mercati del lavoro attraverso soluzioni di smart working”, da finanziare con risorse limitatissime (300 milioni in 6 anni per finanziare 600 progetti da attivare in 600 ambiti sociali territoriali). Non a caso, lo stesso Piano indica che nei progetti saranno coinvolte 4.200 persone con disabilità, ancorché, secondo ISTAT, i cittadini disabili nel nostro paese siano almeno 3 milioni, più del 5% della popolazione.
È chiaro, insomma, che nel Recovery Plan italiano sulla disabilità, per ora, non è stato compiuto alcuno sforzo di visione, limitandosi e inserire pochi e sporadici interventi finanziati in modo risibile (lo 0,1% delle risorse complessive previste e circa il 6% del capitolo dedicato a vulnerabilità, inclusione sociale, sport e terzo settore). Una scelta non solo iniqua ma miope, anche in chiave di futura crescita economica.
Noi abbiamo, infatti, la grandissima opportunità di passare da un welfare prevalentemente riparativo e assistenziale a un sistema capace di promuovere appieno il diritto di tutti, anche delle persone con disabilità, di sviluppare il proprio potenziale e di partecipare effettivamente alla vita politica, economica e sociale del Paese, così come previsto dall’art. 3, secondo comma, della Costituzione. Una norma costituzionale che solo non afferma il principio di uguaglianza sostanziale tra tutti i cittadini, ma che contiene in sè, se semplicemente si avesse il coraggio di vederlo, un fenomenale programma per la crescita del nostro Paese.
La storia dell’Italia ce lo insegna: esiste un legame indissolubile tra sviluppo e prosperità, da un lato, e capacità di promuovere i diritti di partecipazione e cittadinanza delle persone, dall’altro lato. Non a caso, proprio nei vent’anni seguiti alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando l’Italia poteva apparire più debole e ripiegata su se stessa, sono stati raggiunti risultati straordinari in termini sia di crescita economica, sia di riforme sociali. Come allora, dunque, oggi più che mai occorre la consapevolezza che nessuna ricostruzione economica sarà possibile senza l’ambizione di realizzare riforme strutturali finalizzate anche a rimuovere gli “ostacoli di ordine economico e sociale, che impediscono il pieno sviluppo della persona umana”, per usare le parole dei Padri costituenti.
È allora, come è possibile che una tale ambizione non riguardi anche i diritti delle persone con disabilità? Diritti che sono stati spesso silenziosamente negati in questi mesi e che, ora più di prima, vanno affermati e promossi, partendo da tre linee di azione, chiare, definite e concrete.
La prima deve riguardare l’istituzione di una misura universale, analoga a quelle per il contrasto alla povertà e per il sostegno alla natalità, finalizzata alla vita indipendente delle persone non autosufficienti. Tale misura dovrebbe riformare l’impostazione del FNA, il cui utilizzo è disomogeneo nei vari territori e non garantisce un livello essenziale con esigibilità di prestazioni minime, dovrebbe caratterizzarsi per un vincolo di destinazione e dovrebbe prevedere una differenziazione tra gli interventi destinati ai più anziani (ai quali dobbiamo assicurare qualità della vita e piena assistenza) e quelli rivolti ai più giovani (per i quali occorre tracciare la possibilità di un progetto di vita). Abbiamo tante buone pratiche sparse nel Paese a cui fare riferimento. Portiamole a sistema e affrontiamo finalmente questo nodo strutturale.
La seconda linea di azione deve dedicare risorse importanti sia a progetti organici di inclusione scolastica e di contrasto alla povertà educativa dei bambini e delle bambine con disabilità, per i quali la scuola e l’istruzione sono spesso la vera, grande occasione di costruzione di futuro, sia alla costruzione di un sistema di politiche attive del lavoro dedicate specificamente alle persone con disabilità. Politiche attive disegnate tenendo conto delle particolari competenze necessarie per accompagnare percorsi di inclusione lavorativa effettivi e incentivando le aziende, al di là del rispetto degli obblighi già esistenti, ad investire in progetti di formazione e di inserimento dei lavoratori con disabilità, anche in collaborazione con enti del terzo settore e avvalendosi di disability manager competenti.
Infine, una terza linea d’azione dovrebbe riguardare un grande piano nazionale sull’accessibilità dell’ambiente costruito, precondizione per qualsiasi possibilità di reale inclusione e partecipazione delle persone con disabilità. Un piano da realizzare, non solo attraverso una revisione e riordino della normativa vigente, così da renderla conforme ai principi della progettazione e universale, ma anche investendo in un sistema di incentivi per promuovere il turismo accessibile e, in generale, le opere di abbattimento delle barriere architettoniche e per sostenere l’implementazione concreta dei PEBA (Piani per l’eliminazione delle barriere architettoniche), attualmente adottati da un numero esiguo di Comuni con risultati molto scarsi.
Tre obiettivi chiari, insomma, su cui investire risorse umane, finanziarie e progettuali così da sfruttare appieno l’occasione storica di ricostruzione del nostro Pese che ci offre l’Europa con il Next Generation EU: puntare su investimenti con un ritorno economico che generi benessere diffuso, ossia vero progresso.
* Avvocato e deputata di Italia viva
17 centesimi al giorno sono troppi?
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.