Cultura

Nel Paese dove la fede è questione di corpi, i giovani stanno in armi

Tre anni passati a militare difendendo la tua identità, per il resto si dribbla ogni tipo di diaspora cercando di allontanare le paure. Di Riccardo Bagnato

di Riccardo Bagnato

Allontanati dal male, cantando. A dirlo è stata una donna anziana. Un detto, quasi un monito, lanciato ai propri nipoti prima della festa organizzata per il rientro del più grande. E proprio lui, a Gerusalemme, mi aveva avvertito: «Qui non è quasi mai quello che sembra, è un paese di psicopatici». Basta un istante. Così, con cautela ci siamo spinti nella notte, lungo il muro della città santa a festeggiare il capodanno. Il giorno dopo abbiamo visitato il liceo francese dove l?élite araba di Gerusalemme spera di far crescere i figli. «Ai miei tempi c?erano solo stranieri, e ben selezionati», spiega, «oggi invece molti arabi musulmani di famiglia ricca e alcuni arabi cristiani».

Qui, dove tutti arrivano prima o poi, ci sono le migliori università d?Israele, e un quartiere interamente dedicato a giovani artisti. Qui, dove tutto sembra in ogni istante ricominciare, la pace come la guerra. Dove il presente ha il colore verde neon dei minareti di notte, quello della pietra bianca di giorno, circondato da muri di ogni genere, di case, kibbutz, check point, quello del pianto o quello fra Palestina e Israele. Qui il futuro è segnato nel volto di chi ci vive. Un volto che è prima di tutto corpo in azione. Che si incrocia, si saluta e si sfida. Con cui gli abitanti capiscono immediatamente da dove vieni, se sei ebreo, musulmano o cristiano, laico o religioso, da quale villaggio del Nord o del Sud. Dribblando fra le mille diaspore: quella dei drusi, dei Bahá’í, degli ortodossi di ogni confessione, dei maroniti. Perché qui la fede, prima di custodirla nell?anima, la difendi anzitutto col corpo. Che diventa icona col tempo, e prende il sopravvento rischiando lo stereotipo che nulla può più, se non riprodurre e confermare se stesso. Ma prima, prima che tutto sia segnato incontrovertibilmente, quel corpo si muove, scalcia, si insinua altrove. E allora basta dire che in Israele oltre il 60% della popolazione non ha ancora 25 anni. Un miraggio per il fisco di un qualsiasi paese europeo, ma che qui, al contrario, sta spaccando i maggiori partiti politici israeliani e palestinesi, guidati dalla vecchia guardia che, dice il mio amico, «solo la morte potrà portarsi via».

Il nunzio apostolico, Pietro Sambi, a questo proposito ci fa un?amarissima riflessione: «Un editorialista israeliano commentando l?incontro tra Giovanni Paolo II e i giovani convenuti qui nel 2000, mi chiese: ?I ragazzi d?Israele dove sono??. Sono sotto le armi, fu la mia risposta». Una gioventù che abbraccia il mitra m16 per tre anni durante il Tsahal, il servizio militare obbligatorio israeliano. Che continua le attività della famiglia fin quando i tempi lo permetteranno. E che si sfiora appena, di notte, o all?Università, quando e dove il potere sembra fare solo da contorno.

E? allora, ma solo allora, in macchina verso il confine del Libano, ascoltando “Dawerha” del musicista Ziad Rahbany, figlio dalla popolarissima Fairouz, che chi mi traduce il testo «Ancora una pista, ti prego, anche se corta», aggiunge che la droga sta minacciando le speranze di quel 60% di popolazione dalle radici. Quello che il custode francescano a Gerusalemme ci aveva detto il giorno prima era più urgente di quanto poteva sembrare, e per questo l?Opera francescana in Terrasanta sta cercando di mettere in piedi alcuni centri di disintossicazione. E ti domandi come hai potuto non notare. E ricordi che nulla è quel che sembra.

Ripensi allora ai ragazzi incontrati alla festa di Capodanno, alle frasi scappate di bocca «di solito, a casa, nel mio villaggio non mi vesto certo così», che tutto era frutto di un incontro temporaneo, sospeso, nell?ultima notte di un anno qualsiasi, ma che lei è musulmana e lui cristiano e nulla, men che meno un matrimonio misto, sarà possibile. Che l?altro «è… insomma, hai capito, no?» ma non si può dire, perché qui, ad eccezione di Tel Aviv e qualche ambiente ebraico progressivo, l?omosessualità è bestemmia severamente punita. Ripensi a quel soldato di neanche vent?anni salito sul pullman – giubbotto antiproiettile e mitra – che per tre anni salirà su altri pullman e forse scenderà per dire «tutto ok», come nel nostro caso, là, dove il muro divide Manhattan dal Bronx, Israele dalla Palestina. E ti ritrovi ormai lontano dal confine con il Libano, prendi il treno per l?aeroporto di Tel Aviv, ti allontani, non sai se dal male. Sai solo che non hai voglia di cantare. Ma di urlare.

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