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Nel nome dei giovani
Di fronte al fatto che le patologie psichiatriche, in forte aumento tra il target giovanile, continuano ad essere nella migliore delle ipotesi, medicalizzate e che ci si trova dinnanzi all'impotenza educativa del mondo adulto, occorre prendere coscienza che Il disagio giovanile non ha solo origine psicologica, ma pure culturale
Sempre più diffusi ci appaiono oggi i fenomeni del disagio giovanile. Essi si svelano soli e disorientati, come vinti da un mondo anomico ed evanescente. La pandemia non poco ha concorso a palesare in maniera vibrante questa condizione, di contro al continuo sfilarsi del mondo adulto, alla sua riluttanza a voler elaborare strategie educative di comprensibile efficacia, disattendendo l’urgenza di creare occasioni sistematiche di formazione e ricusando l’obbligo morale di farsi ‘soggetto educante’.
Le patologie psichiatriche, in forte aumento tra il target giovanile, continuano ad essere nella migliore delle ipotesi, medicalizzate senza abbracciare il senso più profondo del disagio. Quest’ultimo si manifesta nella fatica a sperimentare socializzazioni rassicuranti ed identificative unitamente ad una comunicazione sociale che sospinge ogni ferita e sofferenza verso la zona oscura dell’invisibile.
Sempre più irretiti nell’illusoria forma di automedicazione delle sostanze psicoattive, molti giovanissimi avvertono il senso profondo di angoscia di chi non è mai stato educato ad affrontare il dolore e la morte come possibilità.
Ecco l’impotenza educativa del mondo adulto che rifiuta ogni narrazione sul senso della vita e della morte cedendo il passo ad una semplice pasticca che sembra riproporre una teoria radicalmente dualista, pensiero e corpo.
Per alleviare il senso di insicurezza e frustrazione abbiamo optato per una risposta frettolosa e meccanicistica di tipo farmacologico di contro a un percorso in cui – come suggerisce Eugenio Borgna- non si confondano la tristezza e la depressione. La malinconia non va immunizzata da psicofarmaci che impedirebbero questo necessario processo introspettivo.
Pur nella loro complessità, molti drammi giovanili sono originati dalla mancanza di comunicazione con il mondo degli adulti, troppo spesso distratto e fors’anche incapace di mettersi in sintonia con le nuove generazioni. C’è una carenza di comunicazione che se messa in campo potrebbe prevenire molti fattori sociali di rischio.
È davvero sempre più in crisi la forma della comunicazione educativa. L’educazione è minacciata anzitutto dalla crisi dell’impersonalità (Claudio Baraldi, 1999), dovuta all’emergenza della personalizzazione, che porta alla demotivazione, da una parte, e alle esigenze di inclusione della persona, dall’altra. In secondo luogo è ostacolata da percorsi di socializzazione che non possono essere trattati educativamente. Questi due fattori concorrono a definire il problema generale della forma della comunicazione educativa che è sempre più in difficoltà.
Inoltre sperimentiamo la privazione di luoghi consistenti e forme di socialità rassicuranti, ovverosia capaci di ascolto e mediazione in grado di superare una concezione privatistica del disagio a vantaggio della socializzazione di angosce e fragilità così da poter accogliere a braccia aperte ombre e domande di senso. Il sistema scolastico va baricentrato più su relazioni ispirate all’ “etica del volto” che a programmi didattici di cui molto spesso si avverte solo la fretta di portarli a compimento; sappiamo come la scuola favorisca le relazioni tra coetanei e dunque costituisca un ammortizzatore dei conflitti adolescenziali.
Abbiamo urgenza di riscrivere un piano di interventi ad ampio respiro per le giovani generazioni.
Ormai va raccolta la sfida di paradigmi culturali, organizzativi ed educativi sinora indebitamente tenuti a distanza. È tempo di ridare forza alla speranza e nuova dignità alla partecipazione politica, in senso lato, per il bene dei nostri figli.
Nel nostro tempo è senza senso aspettare che qualcuno venga dal mare per riportare la Legge sull’isola devastata dall’egotismo dei Proci. Però è altrettanto vero che, nell’epoca della evaporazione del padre, bisogna sapersi liberare dall’ossessione del passato: sono proprio i figli che ci indicano la nuova direzione verso cui guardare, perché i figli sono i giusti eredi ed essi reclamano il bisogno di nuove forme di socializzazione, di nuovo dialogo, relazioni, sguardi.
Se il mondo degli adulti opta per il deserto della comunicazione diventa inevitabile per il mondo giovanile annegare in un deserto di senso che obnubila ogni sentimento emotivo e allora, come dice Galimberti, “ tutte le parole che invitano all’impegno e allo sguardo volto al futuro affondano in quell’inarticolato all’altezza del quale c’è solo il grido, che talvolta spezza la corazza opaca e spessa del silenzio che, massiccio, avvolge la solitudine della loro segreta depressione come stato d’animo senza tempo, governato da quell’ospite inquietante che Nietzsche definisce: «Nichilismo: manca il fine, manca la risposta al “perché?”. Che cosa significa nichilismo? – che i valori supremi perdono ogni valore».
Bisogna convincersi che il disagio giovanile non ha solo origine psicologica, ma pure culturale. Per questo si rende necessario tornare a far rifiorire il giardino dei valori che libera i giovani dalla povertà estrema e li porta a riappropriarsi dell’entusiasmo tipico della giovinezza.
In apertura Photo by Hitesh Choudhary on Unsplash
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