Mondo

Nel 2000 anche negli Usa lo stop alla pena capitale

Sulla pena di morte gli Usa oggi sono in compagnia dei loro nemici storici, Iran e Iraq. Grazie alle pressioni della Chiesa e dei media su Clinton qualcosa cambierà. E prestissimo

di Sergio d'Elia

Negli Stati Uniti, mai come in questi ultimi anni, è aumentato il numero di esecuzioni capitali; e questo, malgrado nel Paese vi sia stata una sensibile diminuzione della criminalità, e in completa opposizione alla comunità internazionale. A spiegare questa messe di ?morti di Stato? interviene prima di tutto un dato meramente tecnico: la ridotta possibilità di ricorso per i detenuti, sancita dalla legge sul ?Rafforzamento della pena di morte? del ?96 firmata da Clinton, correlata alla diminuzione delle risorse pubbliche destinate ai ?Resource center?, i comitati di avvocati che si occupano della difesa dei condannati più poveri. I quali condannati, bisogna notarlo, costano parecchio al governo, che dunque tende a sveltire le pratiche. Ritengo, comunque, che l?incremento delle esecuzioni in questi ultimi due anni si possa interpretare come una sorta di colpo di coda degli Usa. Gli Stati maggiori del governo si trovano infatti costretti in una tenaglia, con la pressione da una parte della comunità internazionale e dall?altra di un crescente movimento d?opinione interno; si sono chiusi a riccio, alla ricerca di una via d?uscita verso l?abolizione che gli salvi anche la faccia. D?altronde non è più accettabile che il Paese ?campione della giustizia internazionale?, intervenga anche con la forza per far rispettare i patti internazionali, patti che a sua volta viola. Per quanto riguarda gli organismi internazionali, non credo che abbiano giocato un ruolo tanto importante le Nazioni Unite, quanto la Comunità europea, perché per la prima volta molti degli alleati storici degli Stati Uniti, dalla Germania all?Inghilterra, soprattutto a seguito del caso-Cannon, hanno chiesto una moratoria sulle esecuzioni. E soprattutto un chiarimento sugli articoli violati che sanciscono i diritti umani di fronte all?esecuzione capitale: la sua applicazione limitata solo ai casi estremi, e la non applicabilità sui minori, sui malati mentali e sulle donne incinta. E parte dell?opinione pubblica americana si trova in grave imbarazzo, supportata dai media che, vedendo su questo tema il proprio Paese come l?unico occidentale in bella compagnia dei propri nemici (soprattutto Iran e Iraq), hanno iniziato a premere sul governo. Ed è stato soprattutto il caso di Karla Tucker a fare entrare nei salotti americani la vera discussione: che giustizia può esserci in un Paese che uccide una persona che dopo 14 anni di galera era riuscita a rinascere? Anche Hollywood è scesa in campo, dal film ?Dead man walking? – che ha vinto un Oscar – alla nuova produzione di Clint Eastwood sul caso di John Cannon. E in questa dialettica di pressioni, va sicuramente rilevato il ruolo della Chiesa, che, è bene ricordarlo, solo negli ultimi anni ha preso una posizione realmente intransigente nei confronti della pena di morte; un ruolo nuovo e fondamentale a cui hanno dato una svolta le affermazioni illuminate di Giovanni Paolo II. Tutte queste considerazioni, comunque, non sono sufficienti per spiegare un fenomeno, unico al mondo, come quello rappresentato dallo stato del Texas. Il passaggio, in questa giurisdizione, dai tre morti del ?96 ai 37 dell?anno scorso – più della metà di tutte le esecuzioni in Usa nel ?97 – si spiega solo nell?inaccettabile scelta politica fatta dal governatore Bush. Un patto scellerato con il suo elettorato per aprirsi una strada verso la rielezione nello Stato e la candidatura repubblicana per le elezioni del Duemila; una strada che – la comunità dovrà ricordarselo in caso di sua elezione a presidente – è lastricata di morti.


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