(PENSO, QUINDI MI FANNO SCOMPARIRE)
Per molti è tra le armi di distruzione contemporanea più in uso: la desaparición forzada (sparizione forzata). Non si vede, ma si sente. Non si vedono i corpi, non si possono seppellire i morti, non si può denunciare il delitto. Tutto brucia, nelle fosse comuni disseminate laddove lo sguardo non arriva, e tutto evapora, affinchè non se ne preservi memoria. In Messico si dice: todo pasa, pero todo se queda – tutto passa ma tutto rimane. Tutto brucia, ma la puzza resta. Tutto evapora, ma il dolore rimane, si sedimenta sulla pelle delle vittime, delle famiglie, nella memoria dei luoghi.
Se in Europa un nuovo anno inizia con un gesto di violenza inaudito, forse è utile domandarsi come visibilizzare la violenza, capirla senza banalizzarla, stabilire connessioni che ci aiutino a disinnescare processi globali, indagandone le relazioni e le similitudini. Nel bel mezzo della violenza più atroce, del lutto più difficile da elaborare, qual’è il gesto più sovversivo? Come preservare la memoria, senza ereditare rancore?
Comunicare la violenza è una delle sfide più complesse e, al contempo, determinante per analizzare la relazione tra libertà di espressione, riproduzione della violenza e pratiche contemporanee di controllo sociale. Abbiamo intervistato il giornalista Federico Mastrogiovanni, autore del libro e del documentario ¡Ni vivos ni muertos!, in cui indaga causa ed effetti della desaparición forzada, e Luca Martinelli, giornalista di Altreconomia e autore di un reportage sulla migrazione centroamericana.
Emanuela Borzacchiello. Ogni desaparicion non è un evento casuale e isolato, ma si inserisce in una strategia articolata di controllo sociale. La pratica della desaparicion forzada come si origina e, oggi, come si trasforma? Quali sono gli attori e gli interessi coinvolti?
Federico Mastrogiovanni. In Messico la pratica della desaparición forzada si registra fin dalla fine degli anni ’60. Nel 1967 nello stato del Guerrero è il primo caso registrato in America latina, ancor prima che in Cile o in Argentina. Se risaliamo ancora scopriamo che in realtà i primi ad usarla nel XX secolo come strategia del terrore sono stati i nazisti con il piano Nacht und Nebel (notte e nebbia) a partire dal 1941. In Messico durante l’epoca di quella che si conosce come Guerra Sucia si è utilizzata la pratica della sparizione forzata per annichilire l’opposizione politica al governo autoritario del PRI (Partido Revolucionario Institucional). L’esercito messicano si incaricava di far sparire guerriglieri, studenti, gruppi dissidenti, primi fra tutti comunisti. Per almeno due decenni (tutti gli anni ’70 e ’80) sono stati fatti sparire probabilmente più di 1500 persone dall’esercito messicano. Oggi però le desapariciones forzadas hanno caratteristiche diverse. Dal 2006 ad oggi sono state fatte sparire più di 30mila persone in tutto il paese. Le vittime non sono facilmente identificabili come nella Guerra Sucia. Non sono solo attivisti, militanti, ma “persone comuni”, inseriti apparentemente in una dinamica casuale di sparizione. È però importante notare come l’incremento di sparizioni forzate si sia dato maggiormente in zone del paese in cui sono presenti importanti risorse ambientali ed energetiche. Come nella Germania nazista si utilizza la sparizione forzata per generare terrore nella popolazione e poter controllare territori strategicamente ed economicamente importanti. In questo processo lo Stato continua a svolgere un ruolo centrale, rendendosi responsabile in modo diretto di moltissime sparizioni, attraverso la polizia (municipale, statale e federale) e l’esercito, ma anche in modo indiretto, per omissione, attraverso funzionari di ogni ordine e grado.
E.B. Narcotraffico e desaparicion forzada, una relazione legata a doppio filo?
F.M. In genere preferisco non parlare di “narcotraffico” perché credo sia una definizione fuorviante. Preferisco definire i gruppi criminali come “crimine organizzato”, poiché non si dedicano esclusivamente al narcotraffico, anzi, in alcuni casi le loro attività principali sono altre. In ogni caso quasi sempre sono membri del crimine organizzato a portare a termine le sparizioni di persone, ma ciò che le rende sparizioni forzate è l’intervento dello Stato, che agisce molto spesso in collusione col crimine organizzato, o permettendo che si facciano sparire le persone, o addirittura dando sostegno logistico e operativo. Questo aspetto di collusione tra Stato e gruppi del crimine organizzato è ciò che ci permette di parlare di desapariciones forzadas. Per portare a termine tante sparizioni ci vogliono grandi risorse economiche, di uomini e un grande appoggio delle forze dell’ordine e delle istituzioni, senza il quale sarebbe impossibile operare.
E.B. Nel documentario ¡Ni vivos ni muertos!, uno dei familiari delle vittime dice “tutto questo non finirà fino a quando non sarà risolto”. In uno Stato in cui il confine tra criminalità e istituzioni è stato cancellato, quali sono le azioni – individuali e collettive – che le famiglie delle vittime stanno mettendo in campo per riappropriarsi del loro territorio e interrompere il circolo vizioso di impunità?
F.M. Innanzi tutto si stanno incontrando, conoscendo e riconoscendo, condividendo un dramma enorme e un dolore incommensurabile. Si organnizzano tra familiari di vittime, prima di tutto per trovare i loro figli, figlie, parenti scomparsi, e poi per fare rete. Questo è il gesto più sovversivo che si possa pensare: sfidare lo Stato sapendo che è partecipe di questo delitto osceno e passare da vittime a attivisti, a cittadini che partecipano ed esigono risposte. La partecipazione però porta anche dei rischi perché ci sono già molti casi di genitori di desaparecidos che sono stati uccisi per il loro impegno nella ricerca dei loro figli e nella difesa dei diritti umani. È un percorso lungo e doloroso ma è sicuramente il più importante.
E.B. Riguardo la libertà di espressione, in Messico abbiamo vissuto una sorta di paralisi collettiva i primi giorni dopo la scomparsa dei 43 studenti che stavano protestando, esprimendo liberamente il loro dissenso rispetto alle politiche statali di tagli all’istruzione pubblica. Poi il dolore si è trasformato in rabbia attiva e le proteste hanno invaso tutti gli stati della repubblica. Cosa sta cambiando?
F.M. È cambiato che prima d’ora non si era mai vista una mobilitazione così massiccia in tutto il paese e una eco internazionale di questo tipo. Benché siano molti anni che si ripresenta lo stesso fenomeno con decine di migliaia di desaparecidos, centinaia di fosse comuni clandestine, probabilmente il caso dei giovani di Ayotzinapa ha scosso maggiormente le coscienze. Ultimamente le proteste sono diminuite e non hanno la forza dei primi due mesi, però si mantiene alta l’attenzione e si cerca di rompere il muro di gomma delle istituzioni facendo partecipare maggiormente la cittadinanza. In questi giorni i familiari degli studenti di Ayotzinapa insieme ad altri studenti si sono scontrati a Iguala contro l’esercito che ha continuato l’opera di repressione. Sono stati feriti molti manifestanti. A quanto pare si è stappata la cloaca ed ora è difficile ricomporre l’ordine apparente, a fronte di una sempre maggiore consapevolezza e indignazione. Io spero sinceramente che sia un punto di non ritorno, dopo il quale si possa solo riemergere.
E.B. Se la stampa estera ha dato grande risalto alla scomparsa dei 43 studenti, in Italia – tranne rare eccezioni – c’è stato silenzio e disinteresse. Perché è importante capire e scrivere della relazione tra violenza e pratiche contemporanee di controllo sociale?
Luca Martinelli. La stampa italiana, almeno quella degli anni Duemila, non guarda con attenzione a ciò che accade all’estero, a meno di non voler limitare “gli esteri” alle regioni del Medio Oriente e dell’Asia in cui dal 2001 si combattono “guerre dichiarate”. Il Messico e quasi tutta l’America Latina, invece, sono scomparse dai radar. Affrontare in modo “compiuto” e approfondito la crisi messicana, quella che ha portato anche alla desaparicion forzada dei 43 studenti, avrebbe senz’altro obbligato i giornalisti italiani ad offrire un’informazione difficile da digerire (perché “impreparati ad accoglierla”), oltre a mettere in difficoltà quello che è stato definito meno di un anno fa come un importante partner commerciale del nostro Paese (durante una visita dell’allora premier Enrico Letta). Ciò significa che leggere la realtà messicana in modo semplicistico (rafforzando l’interpretazione “violenza —> desaparacion forzada —> narcos —> ‘Narcostato’”) è funzionale al mantenimento di uno status quo, come lo è -guardando al nostro Paese- rappresentate Stefano Cucchi come un giovane “tossicodipendente da vent’anni”, anche se ne aveva 31 quand’è morto (il virgolettato è tratto dalla sentenza dei giudici d’Appello).
E.B. Hai dedicato un reportage ai migranti centroamericani che rischiano la vita cercando di raggiungere il sogno americano, dopo aver visitato nell’Estate del 2014 un “refugio”, una delle case che danno loro ospitalità lungo il viaggio verso il Nord. Le desapariciones forzadas si verificano a partire dalla sparizione dei corpi dei migranti e dalla scoperta delle fosse comuni. Viste da qui quelle fosse sono troppo lontane, perché dovrebbero interessarci?
L.M. Quest’estate, a Tenosique, parlando con i giovani onduregni e nicaraguensi ospiti della casa-rifugio “La 72”, gestita dai francescani a pochi decine di chilometri dal confine tra Messico e Guatemala, ho avuto la percezione di quanto Messico ed Italia siano simili. Entrambi sono piattaforme dove i migranti si trovano in transito. Tenosique è come Lampedusa: chi vi arriva, non lo fa per restare; la maggior parte di coloro che arriva, non è un migrante ma un possibile rifugiato, perché fugge da una situazione terribile, di guerra, violenza, povertà. Nel caso centroamericano, oltre al conflitto in Honduras (scaturito dal colpo di stato del giugno 2009), non possiamo dimenticare tra le cause di migrazione anche i danni che la piccola proprietà contadini e i lavoratori agricoli salariati subiscono a causa del deterioramento delle condizioni di scambio causati -anche- dagli accordi commerciali che i Paesi centro americani hanno siglato con gli Stati Uniti d’America (CAFTA) e l’Unione europea (dal 2012).
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