Nel lungo periodo saremo tutti passati a miglior vita. Ma anche se siamo qui il tempo di un battito di ciglia, non possiamo non interrogarci – specie per chi ha figli – su quello che sarà non solo domani ma anche dopo domani e poi ancora più avanti. Avere lo sguardo lungo, insomma, è quasi una necessità esistenziale.
Negli ultimi tempi una delle espressioni più belle che mi hanno spinto a riflettere sui tempi lunghi è questa: nativi della csr. L’ho letta per la prima volta in un bell’articolo. Non so se sia stata usata prima. Ma l’ho fatta subito mia.
Beh, per farla breve il concetto è questo. Siamo abituati a sentir parlare di nativi digitali, no? I giovani anzi i giovanissimi nati al tempo del web, dei social network, della banda larga e ultra-larga, degli smartphone e dell’always connected. Per loro la grande rete informatica, che mosse i primi passi decenni or sono e non proprio per scopi umanitari, è semplicemente un dato di realtà. Descrive il mondo che hanno intorno. Non è una conquista, o almeno non la vivono così. Non è un qualcosa di cui dire “ma come facevamo quando non c’era?”, perché ci sono nati dentro. Un po’ come la televisione per quelli della mia età. Il telefono per quelli di una generazione prima, credo. C’è, esiste. Punto.
E allora, che succede se si applica questo concetto alla csr? Succede che stanno arrivando sui luoghi di lavoro (quelli che un lavoro lo trovano, ovviamente) e sul mercato, nel senso di acquirenti capaci di essere decisori dei loro acquisti (su chi paga spesso è da vedere…), e ancor più arriveranno nei prossimi anni, delle vere e proprie batterie, legioni, insomma generazioni di ragazze e ragazzi che la csr semplicemente ce l’hanno nel sangue. Che la vedono e la vivono come un dato di realtà. Sono abituati cioè a guardare alle imprese, quelle in cui lavorano e quelle che producono i prodotti che acquistano, come a organizzazioni che non solo finalizzano la loro attività al conseguimento di un profitto, ma tengono conto – perché devono tenerne conto, non possono non farlo, non avrebbero posto in questa realtà – di variabili sociali e ambientali.
Per i nativi della csr dire impresa e dire sostenibilità è la stessa cosa: l’impresa dev’essere sostenibile. Sostenibile dev’essere il loro stile di vita, il modo di spostarsi, mangiare, vestire, buttare o meglio riciclare quello che usano tutti i giorni. E di immaginare il lavoro, naturalmente.
Ciò ha almeno due conseguenze importanti, nella prospettiva di questo blog.
Primo: è facile prevedere che molti di questi giovani sono o comunque presto potranno essere consumatori responsabili, critici, in una parola consum-attori.
Secondo: è ugualmente facile intuire che si aspetteranno, dalle aziende in cui andranno a lavorare, tutta una serie di attenzioni in senso sociale e ambientale: li possiamo chiamare lavor-attori? Massì, proviamoci. Perché per loro quelle non saranno attenzioni particolari, o dimostrazioni del fatto che alcune aziende sono più illuminate di altre: per loro sarà semplicemente un elemento di realtà. Non potrà che essere così, per loro.
E allora, sui tempi lunghi, mi vien da essere fiducioso (ammetto che non capita spesso, di questi tempi). Perché tutto questo seminare che si è fatto in anni e decenni sulla csr, sulla sostenibilità, sull’etica d’impresa e via discorrendo, beh, evidentemente sta cominciando a dare frutti. Non perché cresce il numero di aziende che pubblicano il bilancio sociale o che controllano e cercano di ridurre le loro emissioni di Co2 o che migliorano i programmi di conciliazione vita-lavoro o chiedono alla supply chain di rispettare certi requisiti, che va sempre bene, intendiamoci. Ma perché le persone che ci sostituiranno man mano su questo pianeta saranno persone diverse da noi, semplicemente in quanto nate e cresciute in un mondo che è cambiato. Persone per le quali la csr in azienda sarà scontata, dovuta, un dato di fatto, di realtà. Non potrà non esserci.
Perché loro sono i nativi della csr, noi no. Facciamogli spazio.
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