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natale nelle case di silvio

A quasi nove mesi dal sisma, ecco come vivono i terremotati

di Francesco Dente

Tutti gli aquilani hanno un tetto (dignitoso) sulla testa. Ma
il sentimento che domina è la malinconia: i quartieri sono stati smembrati, i vicini separati, la mobilità è stravolta,
si vive in macchina, prigionieri del traffico. E con le feste riaffiorano i ricordi di chi non c’è più. Cronaca di una ricostruzione riuscita, ma solo a metà Il primo stop è a Barisciano. All’altezza del campo base dei Vigili del fuoco. La coda per entrare a L’Aquila inizia qui, a meno di venti chilometri dalla città. Pochi metri prima di una curva che chiude la vista a chi è incolonnato. Che cosa è successo? Perché le macchine sono ferme? Quando si riparte? Meglio mettersi l’anima in pace. È il primo singulto di un singhiozzo dell’auto che si placa solo quando si esce dal capoluogo abruzzese. Chi è al volante dimentica presto la quarta e la terza. Nel traffico post terremoto si procede in prima e seconda. Migliaia di abitanti, per necessità o forse per paura di stare in casa, sembrano aver scelto di vivere in macchina. Uno in fila all’altro, inghiottiti da un serpentone che avviluppa la zona rossa e stende le sue spire in periferia.

La zona industriale
Qui, nella zona industriale, si è trasferito dal 6 aprile il cuore pulsante della città delle novantanove cannelle. Uffici, facoltà universitarie, Curia. Sotto le vele protettive del centro commerciale L’Aquilone cerca di rinascere un paese che prima si ritrovava in Piazza Duomo, all’ombra della chiesa delle Anime Sante. Qui torna a lavorare ogni mattina chi ha dormito negli alberghi sulla costa, chi vive dall’altro lato della città e deve fare una levataccia per portare i bambini all’asilo, chi bussa alle aziende per chiedere un lavoro.
Da queste parti conviene sempre dare un’occhiata alla targhetta sul citofono. Si rischia, magari, di bussare alla porta dell’arcivescovo. Monsignor Giuseppe Molinari, titolare della sede dell’Aquila dal 1998, ha trasferito i suoi uffici a 300 metri dall’industria farmaceutica Dompè, in un prefabbricato grigio come i mille capannoni tirati su dai Brambilla d’Italia. Cambia solo l’insegna: lo stemma episcopale. Nella hall, un enorme dipinto col faccione sorridente di Ratzinger. Sua Eccellenza è al primo piano, dove scivola fra una stanza e l’altra della Curia. Prova a risolvere mille problemi e, chissà, cerca di esorcizzare la paura. La notte del terremoto si era spostato in cucina perché avvertiva una fitta al cuore. Quel malore lo ha salvato dal crollo della stanza da letto.
«Siamo ancora in piena emergenza», dice. Natale è alle porte e l’urgenza di assicurare un luogo di culto a ogni comunità, specie là dove le chiese sono crollate, si fa più stringente. Nel corridoio ci sono gli ingegneri della Protezione civile che attendono per concordare i dettagli sulla realizzazione di una chiesa in legno nella frazione di Arischia. Tocca ricostruire le chiese e ridisegnare i confini delle parrocchie. La scossa, infatti, ha rimescolato i fedeli. C’è da trovare un prete per gli abruzzesi che vivono nei villaggi di Map (Modulo abitativo provvisorio), le villette realizzate nei 57 borghi del cosiddetto cratere, l’area dei comuni più colpiti dall’urlo delle 3.32. Poco tempo per pensare alle polemiche sollevate da Repubblica sulla nuova Casa dello studente realizzata a Coppito, con fondi della Regione Lombardia, su un terreno della Curia e che fra trent’anni diventerà proprietà della diocesi. «Sono amareggiato», dice monsignor Molinari. «Non siamo interessati a fare gli affittacamere ma a proporre un progetto culturale. Almeno il terremoto dovrebbe liberarci dai pregiudizi».

Le case del Ca.se.
Salutiamo l’arcivescovo e ci infiliamo di nuovo nel traffico. Prossima meta Bazzano, la frazione in cui sorge il nucleo più consistente di appartamenti del progetto Ca.se. (Complessi antisismici sostenibili ecocompatibili), le palazzine a tre piani che poggiano su colonnati a prova di scossa. Incrociamo alcuni inquilini che rientrano e proviamo a concordare un incontro, magari con più famiglie, per una chiacchierata sulla vita da neo-bazzanesi. Ma, a più di due mesi dalla consegna degli alloggi, nessuno conosce nessuno. Le famiglie sullo stesso pianerottolo a malapena si salutano. O magari non hanno voglia di parlare perché conoscono già l’argomento: i lutti e le sofferenze. C’è chi prima abitava in centro, chi in un quartiere, chi nell’altro. Troppo presto, forse, perché fiorisca una comunità. Sono state fatte, insomma, le nuove case. Ora bisogna fare i nuovi aquilani. Riusciamo a strappare poche battute. Anche i più trinariciuti fra gli antiberlusconiani riconoscono che è stato realizzato l’inimmaginabile. Nelle case si sta bene, c’è l’indispensabile. L’altro lato della medaglia, meno luminoso, sono invece i criteri seguiti per l’assegnazione degli appartamenti e la ricostruzione, ancora ferma, delle case distrutte o lesionate, specie del centro storico. Più o meno tutti sollevano perplessità. Alla fine, comunque, va bene così: sempre meglio delle tende, dicono.

Onna come Milano 2
Solo una signora ci dà appuntamento per le quattro. Di nuovo in macchina, destinazione Onna. Le lancette, qui, sembrano ferme al 6 aprile. Quasi che il tempo si fosse cristallizzato in quel fotogramma, l’ingresso del paesino, visto e rivisto durante i collegamenti dei tg. Basta girare la testa, però, e il fermo immagine in bianco e nero si trasforma in un film a colori. A destra c’è la nuova Onna con le sue casette in tinta. Ci sveglia dal torpore l’odore dei cavalli del signor Evaldo. Il terremoto, racconta, gli ha ammazzato 105 delle sue 110 pecore. Raggiungiamo Giustino Parisse, giornalista del Centro, nel suo modulo abitativo. In alto, sulla parete di fronte all’ingresso, i ritratti di Domenico e di Maria Paola, i due figli di 18 e 16 anni morti sotto le macerie. È il crocifisso della stanza. Giustino è un uomo alto e buono. Così discreto da non far trasparire un filo della sua tristezza. Quella notte ha perso anche il padre, Domenico. Ci racconta del modello Onna. Un modello, per certi versi, berlusconiano. Il borgo di poco più di 300 anime, riassume, è stato ricostruito «come una piccola Milano 2. Con il verde e i giardinetti fra una casetta e l’altra». Non ci sono recinti che delimitino i Map, ma vialetti che li collegano l’uno all’altro. L’idea di fondo, spiega il capo della redazione aquilana, è ricostruire una comunità. Le villette infatti sono state assegnate ricalcando la mappa della Onna che non c’è più. Chi era vicino di casa prima del 6 aprile, lo è ancora oggi. Sulla cinta esterna, quella di fronte al paesino distrutto, è sorto il Memoriale. I nomi dei 40 caduti guardano la vecchia Onna. Per sempre. Al centro del nuovo agglomerato di casette c’è l’asilo delle suore di Maria Serenissima presentata al Tempio, realizzato dai progettisti della Provincia di Trento con i fondi di Porta a Porta e di Veneto Banca. È la struttura più grande realizzata a Onna. Un memoriale, anche questo. Intitolato a Giulia Carnevale, la 23enne studentessa di Architettura morta abbracciando gli schizzi di una scuola materna, a forma di libro, che stava disegnando per l’esame di composizione.

Il bambino e la torre
Ci accoglie, dopo essersi assicurata che non ci siano telecamere, suor Pia. Poca voglia di raccontare. Ringrazia chi si è speso per assicurare un futuro a questa istituzione nata nel 1883, e torna dai piccoli. «Sono sereni», dice. «Non li abbiamo abbandonati un attimo dal 6 aprile. Solo un bambino qualche giorno fa, quando è caduta una torre fatta con i Lego, ha esclamato: il terremoto!». Prima di risalire verso la nuova chiesa in legno della Madonna delle Grazie, costruita dai trentini, facciamo un salto alle due campane di San Pietro recuperate dopo il crollo e rimontate dai vigili del fuoco su una specie di campanile dove sorgeva la tendopoli. La più grande svetta in cima. Rialzatevi, sembra dire agli onnesi. A destra del sagrato, protetto da un gazebo, il presepe donato da un gruppo di Desio, provincia di Monza e Brianza. Ma qui non c’è voglia di festeggiare. Pochi alberi addobbati e qualche addobbo. Solo per far contenti i bambini. Giustino saluta: «Speriamo che il Natale passi prima possibile».


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