Welfare

Nascita (e morte) di una dipendenza

Da sostanze, come alcol e droga, o comportamento, come il gioco d’azzardo, oggi ne conosciamo i meccanismi psicologici e neurobiologici. Scongiurare la transizione tra apprezzamento e ricerca incontrollata, tra sano piacere e doloroso bisogno, si può. Ne abbiamo parlato con un neuroscienziato cognitivo esperto di decisioni e di motivazione che dice: «Serve intercettare persone, contesti, ambienti più a rischio»

di Nicla Panciera

Cosa c’è di più bello dell’indulgere in qualcosa che amiamo fare? È questo un ambito di studi molto affascinante, ma la scienza insegna anche che la dipendenza, pur incardinandosi nella ricerca del piacere, non ne costituisce semplicemente una versione estrema. Di dipendenze si è tornato a parlare nel fine settimana in un convegno organizzato da Fondazione Arca. Ma cerchiamo di capire cosa si intende quando si parla di dipendenza e cosa ci rende così vulnerabili. Lo abbiamo chiesto a Nicola Canessa, neuroscienziato cognitivo della Scuola universitaria superiore Iuss di Pavia, dove studia gli aspetti comportamentali e neurologici della motivazione anche in una prospettiva clinica.

Come agiscono le sostanze psicoattive?

Tutte queste sostanze, pur differendo nei meccanismi di azione specifici, condividono la capacità di modulare il circuito cerebrale della gratificazione, caratterizzato dalla risposta dopaminergica a livello del nucleo accumbens. Quello della ricompensa è un meccanismo evolutivamente importante che, spingendoci a ricercare quello che da piacere, ci guida a scegliere quanto in natura è funzionale alla nostra sopravvivenza e alla riproduzione, aumentando potentemente le nostre motivazioni alla ricerca di un piacere sperimentato in precedenza. Qui, su questo interruttore, agiscono le sostanze psicoattive.

Come si instaura una dipendenza?

Le modificazioni transitorie del normale funzionamento cerebrale rinforzano la ricerca dell’effetto piacevole e la ripetizione dell’esperienza. Si parla di progressiva transizione da “impulsività” (intesa come la spontanea reazione appetitiva a uno stimolo che in precedenza ha determinato un piacere) a “compulsività”, ossia una tendenza comportamentale alla ricerca di quello stimolo, nonostante la consapevolezza delle conseguenze che esso può comportare. Nel primo caso, interviene un processo di rinforzo positivo («cerco qualcosa che mi dà piacere»), mentre la compulsività è guidata da un processo molto più subdolo, il rinforzo negativo, che spinge a cercare un modo per uscire da uno stato percepito come fisiologicamente e psicologicamente molto spiacevole. Questa è la fase che porta al craving, quel desiderio impellente di ottenere ciò che si desidera, non più perché ci fa provare piacere, ma perché ci consente di uscire dalla spiacevole sensazione di sentirne il bisogno.

Quali sono le basi neurobiologiche di questo percorso?

Nel tempo, si assiste a un’alterazione dei sistemi di controllo e dei processi decisionali. Inoltre, le capacità di controllo, in alcuni casi, come nel disturbo da uso di alcol, possono anche essere ulteriormente compromesse dagli effetti neuro-cognitivi della sostanza. È più difficile dire se, e in che misura, una ridotta abilità decisionale sia precedente al disturbo. All'apprendimento e alla stabilizzazione della dipendenza, seguono dei meccanismi psicopatologici come la cecità alle conseguenze, pensiamo a chi fuma nonostante sia consapevole del danno, fino all’annullamento di tutto quello che non è l’oggetto della propria dipendenza. Un dato ormai ben verificato, in tal proposito, è il fatto che la stabilizzazione della dipendenza si associa all’iperattivazione del sistema cerebrale della gratificazione a fronte di stimoli che evocano l’oggetto della dipendenza, come un’insegna di una sala giochi per un ludopatico, e alla sua ipoattivazione a fronte di stimoli che per la maggior parte delle persone costituiscono una gratificazione naturale, come il cibo o la socialità.

Oltre alle sostanze da abuso, ci sono poi il gioco e le scommesse. I meccanismi sono gli stessi?

Sì, tutte le dipendenze patologiche, incluse quelle che in passato erano definite “senza sostanza”, come il gioco d’azzardo o shopping compulsivo, sono accomunate dagli stessi processi neurobiologi. Prova ne è il poli-abuso, cioè la dipendenza da sostanze multiple, e il passaggio da un tipo di dipendenza all’altro, fenomeno noto come addiction transfer.

Alcune dipendenze sono guardate con indulgenza, quando non caldeggiate e condivise. Quanto conta la cultura e quanto la disponibilità nell’esordio della patologia?

È una domanda complessa e stimolante, proprio perché una dipendenza patologica è l’esito dell’iper-attività di quei sistemi cerebrali che generano le nostre motivazioni appetitive, ossia la spinta a ricercare ciò che, in precedenza, abbiamo trovato gratificante, con tutte le differenze individuali quanto a preferenze e aspirazioni. Senza questi meccanismi essenziali per la sopravvivenza dell’individuo e della specie, inoltre, saremmo assai poco motivati a impegnarci, a tal punto che le evidenze raccolte fin qui suggeriscono che le emozioni sono probabilmente uno speciale ingrediente della nostra vita che l’evoluzione ci ha regalato per potenziare le motivazioni.

Che fare dunque?

Non dobbiamo criminalizzare desideri, speranze e motivazioni appetitive anche forti, ma semmai imparare a conoscere i fattori che possono determinare la transizione tra un sano piacere e un doloroso bisogno, per prevenire l’instaurarsi di una dipendenza. Dobbiamo interrogarci seriamente sui fattori che la facilitano, sia personali, come un periodo di particolare stress, che sociali, come scarse gratificazioni sul piano sociale, e anche culturali. Si tratta quindi di trovare un buon equilibrio che consenta alle persone di cercare e trovare piacere nell’ampia quantità di stimoli di cui possiamo disporre, ma non per colmare una lacuna di altro tipo. E a questo può contribuire, nel bene o nel male, chi progetta e gestisce la società, che dovrebbe occuparsi di rendere salienti e disponibili quelle che, aumentando i livelli di dopamina, costituiscono gratificazioni "naturali” per l’essere umano (sport e incontro sociale, tanto per citarne due semplici), rendendo invece meno facilmente accessibili, senza necessariamente impedirle, quelle apparenti gratificazioni che costituiscono in realtà un rifugio o peggior ancora un antidolorifico.

Perché certe persone sviluppano più facilmente una dipendenza?

L’instaurarsi o meno di una condotta d’abuso dipenderà a seconda dei casi dalla predisposizione individuale, sia biologica sia psicologica, si pensi al temperamento che ricerca le novità, il cosiddetto “novelty seeking” o “sensation seeking”, tipico delle persone che reagiscono con eccitazione, e impulsivamente, a stimoli o situazioni nuove. A loro volta, questi fattori si integrano con contesti ambientali che possono proteggere da, ma talvolta facilitare, quelle condotte particolarmente esplorative che mettono direttamente a contatto con possibili oggetti di dipendenza. Naturalmente non sempre la situazione evolve verso delle condotte di abuso e può rimanere a livello subclinico.

Dipendente un giorno, dipendente per sempre. Liberarsi della dipendenza si può?

Da un lato, dati neuroscientifici particolarmente incoraggianti mostrano chiaramente le possibilità di un recupero neurologico, oltre che cognitivo e comportamentale, già poche settimane dopo la cessazione del consumo di sostanze alcoliche. Allo stesso tempo, in un’ottica di trattamento psicologico o psicoterapeutico, è sbagliato incentivare la speranza di una totale rimozione della dipendenza, anche per risparmiare alla persona quel senso di fallimento quando una ricaduta molto probabilmente si verificherà. Bisogna invece rafforzare la convinzione delle proprie capacità, e insegnare a gestire momenti difficili e cadute quando (non “se”) si verificheranno.

(Photo by Lee Thomas on Unsplash)

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