Salute pubblica

Nasce la rete “Zero Pfas Italia”: dal Veneto all’Umbria la mappa degli attivisti

Nell’ottobre scorso si sono tenuti a Firenze gli "Stati Generali sull’inquinamento Pfas" organizzati da Greenpeace. Comitati e associazioni si sono confrontati e uniti nella Rete Zero Pfas Italia, per ora estesa a Veneto, Lombardia, Piemonte e Toscana. Ma nuovi gruppi stanno sorgendo in altre regioni

di Linda Maggiori

Da quando, più di dieci anni fa, è stata scoperta tra le province di Vicenza, Verona e Padova la prima contaminazione da Pfas,  l’incubo non si è arrestato, le bonifiche sembrano impossibili e quel che è peggio sono state scoperte nuove contaminazioni in altre regioni.

Nell’ottobre scorso si sono tenuti a Firenze gli “Stati Generali sull’inquinamento Pfas” organizzati da Greenpeace, dove comitati e associazioni si sono confrontati e uniti nella Rete Zero Pfas Italia, per ora estesa alle regioni del Veneto, Lombardia, Piemonte e Toscana. Ma nuovi gruppi stanno sorgendo in altre regioni.

Un report di Greenpeace nel maggio 2024 ha evidenziato la presenza di Pfas in molti fiumi, laghi e acque sotterranee in ben 16 Regioni. La direttiva europea del 2020/2184 recepita dall’Italia nel febbraio 2023, fissa a 100 ng/litro il limite per il parametro “somma Pfas” (le 20 molecole più pericolose). Limite che però non garantisce alcuna sicurezza, in quanto queste molecole, dannose per la salute dell’uomo, si accumulano nell’ambiente e negli esseri viventi. 

In Veneto, la regione dove è esploso il “caso Pfas” sono sorti negli tanti gruppi e comitati contro i Pfas: dalle mamme No Pfas, al Gruppo educativo Zero Pfas del Veneto, al gruppo CiLLSA (Cittadini per il Lavoro, la Legalità, la Salute e l’Ambiente) alle associazioni più storiche come Legambiente.

Come sottolineano Maria Secco e Catia de Cao, referenti della Rete Zero Pfas per il Veneto: «La bonifica non è ancora iniziata e neppure la messa in sicurezza del sito ex Miteni è stata completata. Ad oggi beviamo acqua filtrata da carboni attivi, che però sono molto costosi e la cui rigenerazione crea ulteriore inquinamento. L’unica soluzione ormai è quella di attingere acqua pulita da nuove fonti ma soprattutto, ovunque, bandire i Pfas». È ancora in corso il processo per disastro ambientale contro la Miteni (Mitsubishi ed Eni), che ha avvelenato la grande falda acquifera del vicentino.  Per i primi del 2025 potrebbe arrivare la sentenza di primo grado.

Attivisti No Pfas

A Schio intanto il Coordinamento non bruciamoci il futuro si oppone al potenziamento dell’inceneritore, così come nel Veneziano, dove i comitati “Opzione Zero” e “No Inceneritore Fusina”, da tempo contrastano il progetto di Eni Rewind, che vorrebbe costruire un inceneritore di fanghi da depuratore a Porto Marghera. Progetto che ha anche incassato il parere negativo dell’Iss (Istituto Superiore di Sanità) perché non è stata tenuta in considerazione la possibile presenza di Pfas nei fanghi. I Pfas infatti non si distruggono e vengono disperse in aria con l’incenerimento.

Dal Veneto al Piemonte. A Spinetta Marengo (Al) opera la Solvay-Syensqo, polo chimico che ancora produce Pfas (nella forma a catena corta Cc604 non priva di rischi per la salute). Dopo il fallimento e la chiusura dello stabilimento Miteni, quello di Spinetta Marengo è rimasto l’unico impianto in Italia a produrre queste temibili sostanze. Solvay ha dichiarato di dismettere la produzione di Pfas nel 2026, ma gli attivisti ne dubitano. «Se ha intenzione di dismettere queste sostanze a breve, perché avrebbe fatto ricorso al Consiglio di Stato contro le prescrizioni imposte da Provincia e Comune per la produzione e l’utilizzo di C6O4 e ADV?» chiede Michela Sericano, presidente del circolo Legambiente dell’Ovadese e Valli Orba e Stura.

A Spinetta la situazione di inquinamento è gravissima. Il circolo Legambiente Ovadese, l’associazione Ànemos, il Comitato Stop Solvay, la Rete Ambientalista seguono da anni la questione chiedendo bonifiche e stop alla produzione.

«L’aria che respiriamo contiene Pfas fino a 10 nanogrammi per m3, per non parlare del suolo del sottosuolo e delle falde acquifere che ne sono impregnate, dentro e fuori dall’area del polo chimico di Spinetta Marengo -continua la Sericano.- Ripetuti studi epidemiologici hanno dimostrato che qui ci si ammala più che altrove. Da tempo ribadiamo che questi specifici impianti vanno chiusi, la produzione bandita. Abbiamo chiesto che sia la Regione Piemonte a stabilire, con legge regionale, con il Pta (Piano regionale di Tutela delle Acque) e con il Prqa (Piano Regionale di Tutela della Qualità dell’Aria) attualmente in fase di revisione, che il limite per le emissioni di Pfas nell’aria, nel sottosuolo e nelle falde acquifere deve essere zero, e che si blocchi l’emissione di Pfas , perché questa popolazione non può aspettare eventuali futuribili leggi nazionali o europee: qui i Pfas li respiriamo, li mangiamo e li beviamo oggi, anche in questo momento!”

Lontano dalla Solvay ma sempre in Piemonte, la contaminazione raggiunge anche paesini di alta montagna. 

In seguito a richieste di accesso agli atti da parte di Greenpeace e del Comitato Acqua Pubblica di Torino, si è scoperto che le analisi ufficiali (tra il 2023 e il 2024) svolte da Smat sull’acqua potabile delle fontanelle pubbliche di 23 comuni della Valsusa, avevano rilevato un inquinamento diffuso e anomalo in una valle alpina. In questi Comuni montani, lontani da impianti chimici, i valori del parametro “Somma di PFAS” oscillano tra i 10 e i 96 nanogrammi per litro, molto vicino alla soglia limite di 100 nanogrammi. «Lo smaltimento illegale dei rifiuti e l’utilizzo di Pfas nei cantieri sono i primi indiziati» ipotizzano i residenti, che si sono riuniti nel comitato “Acqua SiCura”. Il dubbio è supportato dalla consapevolezza che prodotti contenenti Pfas vengono generalmente usati negli scavi di tunnel e gallerie. 

«A Gravere c’è una fonte a 1.200 metri, dove i torinesi attingono quella che un tempo era acqua purissima», spiega Silvio Tonda referente del comitato e della Rete Zero Pfas Piemonte «Qui sono stati trovati 96 nanogrammi per litro. Dati simili per il Comune vicino, Chiomonte, dove sono stati riscontrati valori molto elevati di Pfoa (sicuro cancerogeno). Si è quindi formata una commissione per analizzare la presenza di Pfas nelle acque della Valle di Susa, alla quale partecipiamo anche noi come comitato. Abbiamo chiesto di affidare urgentemente al Cnr e alla figura del dottor Polesello l’incarico di effettuare indagini sulle cause dell’inquinamento e un piano di monitoraggio straordinario, speriamo che ci ascoltino».

In Lombardia, regione a forte vocazione industriale e contaminata da una miriade di altre sostanze (pensiamo ai Sin ancora da bonificare), già da anni sono stati rinvenuti Pfas nelle acque superficiali e sotterranee, da parte di Arpa. Secondo il monitoraggio Greenpeace che ha studiato i dati Ats tra il 2018 e il 2022, in circa 262 campioni sono emerse queste sostanze, con valori tra 5 e 1146 ng per litro, in particolare nel lodigiano i valori sono altissimi, simili a quelli della zona rossa del Veneto.

Il Comitato Acqua e Salute Capriolo No Pfas, è nato a inizio 2024, in provincia di Brescia, dopo che furono rintracciati Pfas nel punto di prelievo «pozzo calepio» di Capriolo, con livelli di 108.8 nanogrammi per litro. «Abbiamo chiesto che fossero fatte maggiori indagini per capire chi sta inquinando il pozzo, ma ad oggi non si sa niente» sottolinea Ivana Fabris, portavoce del comitato Acqua e Salute.  «Purtroppo col passare dei mesi anche la cittadinanza si sta disinteressando, come se il problema fosse scomparso, ma così non è».

Sul tema è attiva dal 2023 la Consigliera regionale Paola Pollini (M5S): «Abbiamo aderito al manifesto della società civile #BanPfas anche tramite diversi atti istituzionali in Regione Lombardia. Questo manifesto chiede di eliminare dalle filiere produttive gli Pfas , ed è sostenuto da Paesi europei quali Germania, Danimarca, Norvegia, Paesi Bassi, Svezia. Abbiamo anche chiesto l’accesso gratuito al biomonitoraggio sulla presenza di Pfas nel sangue, come in Veneto, per la tutela della salute».

In Toscana, in base ai dati raccolti da Arpat nel 2022, i Pfas erano presenti nel 76% delle acque superficiali, nel 36% delle acque sotterranee e nel 56% dei campioni di biota monitorati. Campionamenti indipendenti di Greenpeace effettuati a gennaio 2024 in alcuni corsi d’acqua di vari distretti industriali (tessile, conciario, cuoio, cartario e florovivaistico) mostravano la presenza di Pfas. Ma se gli impatti dell’industria conciaria, tessile, florovivaistica e del cuoio erano già stati evidenziati dallo studio del 2013 del Cnr-Irsa e dai rilievi annuali di Arpat, le analisi condotte da Greenpeace Italia provano che anche il distretto cartario lucchese contribuisce all’inquinamento da Pfas.  

«Una settantina di associazioni e comitati hanno scritto a tutti i Sindaci e ai Consigli Comunali della Toscana per avere contezza puntuale e dettagliata dello stato di contaminazione delle acque potabili (comprese quelle minerali servite nelle scuole), e per chiedere al Governo di emanare al più presto una legge che proibisca il consumo e la produzione di Pfas» racconta Clara Gonnelli, presidente regionale dell’ADiC Toscana Aps e tra i referenti della rete Zero Pfas Toscana. 

In Umbria nel settembre scorso, Italia Nostra Terni ha scoperto casualmente un dossier Pfas risalente al 2018 caricato nel sito istituzionale Arpa, al quale le istituzioni e la stessa Arpa non avevano dato nessuna risonanza. Nel documento si legge che parte dell’acqua potabile della Conca è carica di Pfas , con ben il 72% dei campioni è contaminato. «I Comuni non sono soltanto Terni e Narni -mette in allerta Andrea Liberati, presidente di Italia Nostra Terni- poiché i pozzi della Conca alimentano molte altre realtà del sud dell’Umbria. Abbiamo chiesto da dove arriva la contaminazione e quali Istituzioni (Regione, Province, Comuni, Autorità centrali) siano state informate e con quale tempestività, e perché i residenti non sono stati informati. Abbiamo chiesto di chiarire come mai, in ben sei anni, nulla sia stato fin qui comunicato pubblicamente, né si siano presi provvedimenti». Ma anche in Umbria, come altrove, le risposte ai cittadini tardano ad arrivare e il diritto all’acqua pulita resta un miraggio. 

In tante altre regioni, la “bomba Pfas” non è ancora scoppiata, ma è solo questione di tempo. Anche perché nel 2025 verranno resi noti da Greenpeace i risultati delle nuove analisi condotte nelle fontanelle di acqua pubblica in oltre 220 città d’Italia e potrebbero venire fuori brutte sorprese. 

Credit foto: Greenpeace

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