Cultura
Napolitano, il lato mite della politica
L'editoriale / In una politica perennemente arroventata da polemiche tanto furiose quanto improduttive, ha fatto un certo effetto vedere un uomo come Giorgio Napolitano salire al Quirinale
In una politica perennemente arroventata da polemiche tanto furiose quanto improduttive, ha fatto un certo effetto vedere un uomo come Giorgio Napolitano salire al Quirinale. Ha fatto piacere ascoltare un uomo che, anche nei toni, dimostra di voler privilegiare il dialogo e l?apertura di credito verso l?altra parte politica. C?è un passaggio della compassata autobiografia pubblicata per Laterza – un?autobiografia senza nessun colpo ad effetto com?è nello stile dell?uomo e, quindi, secondo i parametri in voga, un po? ?noiosa? – c?è un passaggio che svela tutto il temperamento dell?uomo. Si tratta di un episodio che risale al 1968, quando l?allora Partito comunista deve decidere un radicale ricambio di leadership. Fu lo stesso segretario uscente a proporre la necessità di un ricambio generazionale, proponendo tre nomi: Natta, Berlinguer e Napolitano. Che a distanza di tanti anni spiega: «Può darsi che chi difetti di presunzione e ambizione non sia destinato ad affermarsi come capo politico. Ma in quell?autunno del 68, fu in modo meditato e per ragioni ben consistenti che assunsi quell?atteggiamento, che mi tirai indietro, che ritenni di dover cedere il passo a Enrico Berlinguer».
Quel tirarsi indietro, in parte eredità di una ?morale? tutta d?un pezzo da autentico comunista, oggi colpisce, come un?assoluta anomalia dentro la normalità avvelenata della politica. Per questo Napolitano può essere, solo con la sua presenza e il suo stile, come un naturale antidoto a tante derive.
Poi, oltre allo stile, ci sono le parole. E anche queste sono apparse misurate tanto da risultare poco strumentalizzabili dai soliti strepiti bipolari: tant?è che oltre agli applausi sentiti o dovuti, c?è stato spazio solo per qualche mugugno. Napolitano ha chiesto di uscire dal muro contro muro, di finirla con la pratica di «immeschinimento» della politica determinato dalla logica di continua contrapposizione e incomunicabilità. Da queste colonne abbiamo sempre combattuto la riduzione della politica a teatrino mediatico: il monito di Napolitano offre una via di uscita, che speriamo davvero venga percorsa da tutti.
Ma nel suo discorso d?investitura Napolitano ha fatto altre due sottolineature importanti. Una riguarda il non profit definito, significativamente, quel «tessuto civile e culturale da cui si sprigiona un potenziale prezioso di sussidiarietà». Queste sono ben più che parole dovute: c?è il riconoscimento di un ruolo e soprattutto di una potenzialità. L?altra sottolineatura invece riguarda i rapporti con la Chiesa. Anche in questo caso prima del dialogo o del confronto sui valori, c?è il riconoscimento (fatto da una coscienza laica, sottolinea Napolitano) «della dimensione sociale e pubblica del fatto religioso».
Sono due notazioni importanti. Tutt?e due contrassegnate da una lodevole assenza di retorica e da un pragmatismo aperto, che non nega le differenze ma esalta la vitalità sociale dei soggetti che agiscono, costruiscono e operano attivamente nel tessuto quotidiano. Che un monito così anti ideologico ci venga da un uomo che ha alle sue spalle una storia vera da comunista, è cosa che forse sorprende ma deve farci pensare: la migliore politica è quella che sa fare un passo indietro. Di qualunque parte sia.
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