Povertà

«Qui è sempre peggio». Ritorno a Caivano sei mesi dopo le promesse del Governo

Sei mesi dopo la visita di Giorgia Meloni il Parco Verde rimane un buco nero. Cosa è stato fatto? Militarizzare il territorio non è la soluzione. Qui servono possibilità di lavoro e opportunità per i minori

di Anna Spena

Dovete andare al Parco Verde?», chiede il vigile. «Vedete eh, non lo so se vi fanno entrare, hanno bloccato tutti gli ingressi. Stanno facendo le proteste, provate a capire se vi lasciano passare». L’aria è pesante, nelle vie che collegano i tre lotti di abitazioni che prendono i nomi delle prime tre lettere dell’alfabeto A, B e C. L’aria è pesante perché sono arrivate le notifiche di sfratto per 254 appartamenti occupati, dentro ci vivono oltre 400 persone, tanti sono minori. 

A livello formale quella notifica di sfratto non è sbagliata: i canoni non vengono pagati da anni. Ma al Parco Verde nel comune di Caivano, cittadina di periferia a nord di Napoli, formale e informale si confondo e tra le strade rimbomba una domanda: “Ma sta gent mo aro’ va?” (Ora questa gente dove andrà a vivere, ndr). I fatti si riferiscono allo scorso febbraio. E l’articolo lo trovate anche sul numero di VITA ora in edicola e scaricabile qui.

ll tempo fermo

Al Parco Verde c’eravamo già stati all’inizio dello scorso settembre. E da quei giorni insieme a chi nel Parco vive e alle realtà del Terzo settore che ci lavorano è nato il focus book Caivano non è persa (si può scaricare dal sito di vita.it).

I viali del Parco sono sempre pieni di altarini con effigi religiose, da Padre Pio alla Madonna. E negli anni questi altarini si sono riempiti di fiori finti e fotografie di chi non c’è più. Sono stati custodi di desideri e speranze: ma qui le preghiere non sono bastate. Il Parco era nato per ospitare parte dei terremotati dopo il sisma dell’Irpinia del 1980. Negli anni la totale assenza delle istituzioni l’ha trasformato in un buco nero e un’isola lontana da tutto il resto, gestita dalla criminalità organizzata. Dodici le piazze di spaccio e nessun servizio per chi ci abita. Il Parco è tornato all’attenzione dei media e del Governo dopo un fatto di cronaca drammatico dello scorso ottobre: due ragazzine sono state stuprate in una struttura abbandonata poco distante, il centro Delphinia. Pochi giorni dopo la notizia l’arrivo a Caivano della premier Giorgia Meloni.

Da quella visita è nato un decreto, informalmente detto “Decreto Caivano”, che, con quel nome, non ha fatto altro che schiacciare il comune e il Parco Verde in uno stigma. La premier, che a onor di verità il Parco l’ha solo sfiorato di profilo, aveva promesso più pattuglie della polizia a controllare il Parco. Effettivamente le pattuglie sono arrivate, ma è bastato? No, non è bastato perché militarizzare il territorio, in un luogo dove manca tutto, non può essere una risposta. Il Parco Verde assomiglia ancora a un buco nero che risucchia tutto e tutti, più di tutto la speranza di una vita diversa, migliore.


Qui è sempre peggio

Titti è un’allenatrice di pallavolo, due volte alla settimana viene nel Parco per fare sport insieme ai minori. L’attività rientra in un progetto che si chiama “La bellezza necessaria”, sostenuto da Fondazione Con il Sud, che vede come associazione capofila l’Unione Italiana Sport per tutti – Uisp Campania. «Per me è tutto molto peggiorato», racconta alla fine dell’allenamento nella palestra letteralmente fatiscente dell’istituto comprensivo Parco Verde 3. In questi mesi di attività lei e Lorena sono diventate amiche, «Lorena porta qui le sue figlie», dice, «e poi rimaniamo a chiacchierare. Sono il suo svago». E Lorena, 37 anni, dello svago ha bisogno perché la vita quotidiana senza prospettiva l’assilla: «Vivo qui dal 1985. Tengo quattro figli, tre minori e uno maggiorenne. Nessuno lavora a casa mia, nessuno. Solo tre volte alla settimana per quindici euro al giorno, faccio le pulizie. Guadagno 45 euro a settimana, con quei soldi faccio la spesa. Quando i soldi non ci bastano i miei figli si mangiano sempre il brodino e la luce non la pago. Qua ormai sta pieno di guardie, e siamo contenti se non si vende più la droga, ma non ci possono fermare dieci volte al giorno per chiederci i documenti». Il Parco è pieno di forze dell’ordine, ma a camminare tra i viali, è chiaro che le strade non vengono pulite da giorni.

Perché non hanno chiesto a noi?

«La gente qua chiede e vuole solo una cosa: lavoro onesto, non è vero che sono tutti criminali», racconta Bruno Mazza, che ha fondato l’associazione Un’infanzia da Vivere, l’unica che ha sede dentro il Parco. «Ci aspettavamo che lo Stato finalmente capisse cosa fare, invece non ha offerto niente, ha fatto solo repressione e uno spazzino lo aspettiamo dal 2006».  Le ultime quattro piazze di spaccio rimaste sono state smantellate: «Ma qua il 70% dei ragazzi ha la quinta elementare? Volete sapere che succede mo? Per mangiare vanno a fare gli scippi e le rapine». L’associazione ha chiesto più volte di essere incontrata dai commissari straordinari che gestiscono il Comune di Caivano. «Niente, per noi nessuna risposta», dice Bruno. Eppure quello dell’associazione è un presidio per i minori che vivono nel Parco, dove le porte sono sempre aperte. Per costruire un futuro diverso e lontano dallo stigma sociale a cui sono costretti gli abitanti del Parco servono lavoro onesto, progetti per i minori, più servizi per i cittadini. Una rinascita è possibile, ma può passare solo dalla strada della collaborazione tra sociale e istituzioni. Una strada che vista da qui, in un pomeriggio di fine inverno, con i cassonetti della spazzatura che bloccano gli ingressi, sembra ancora troppo distante dall’inizio della primavera. 

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Il prossimo 5 aprile, a Napoli, VITA presenta il sesto book della collana Geografie Meridiane, dedicato alla Campania. Tra le sette esperienze che raccontiamo anche la storia di Bruno Mazza e dell’associazione “Un’Infanzia da Vivere”.

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