Il caso

Napoli, lasciare a casa 300 cooperatori sociali è un attacco al welfare pubblico e universale

«La buona notizia è che l'Azienda Sanitaria Napoli 1 assume nuovi operatori e operatrici», scrive Andrea Morniroli della cooperativa sociale Dedalus. «La cattiva è che "usa" questo percorso per lasciare a casa più di 300 lavoratrici e lavoratori delle cooperative sociali, negli ultimi 30 anni protagonisti dei servizi socio-sanitari, territoriali e non, rivolti a salute mentale, tossicodipendenze, cura degli anziani e delle malattie croniche»

di Andrea Morniroli

La buona notizia è che l’Azienda Sanitaria Napoli 1 assume nuovi operatori e operatrici. 

La cattiva è che “usa” questo percorso per lasciare a casa più di 300 lavoratrici e lavoratori delle cooperative sociali, negli ultimi 30 anni protagonisti dei servizi socio-sanitari, territoriali e non, rivolti a salute mentale, tossicodipendenze, cura degli anziani e delle malattie croniche. Si tratta di operatori e operatrici che in molti casi sono punti di riferimento, tanto per le loro  competenze quanto per il ruolo affettivo e relazionale nei confronti delle persone con cui lavorano e delle loro famiglie. Professionalità che sono state protagoniste in questi anni di una integrazione virtuosa tra pubblico e privato sociale che, non solo a Napoli ma in tutto il Paese, ha consentito di immaginare e realizzare servizi innovativi, capaci di farsi carico delle complessità delle persone più in difficoltà, garantendo per loro percorsi alternativi all’istituzionalizzazione e al contenimento. In primis rendendo possibile la chiusura di quell’infamia civile e etica che erano i manicomi e partecipando poi allo sviluppo e alla messa a terra di normative importanti come la Leggi 328 e 285  per immaginare il sistema nazionale anti-tratta (unico al  mondo nel coniugare tutela delle vittime e contrasto al traffico e ai trafficanti).

Insomma, se dovesse essere confermata, la perdita del lavoro di quegli operatori e operatrici, non è solo drammatica per l’effetto che avrà sulle loro  vite e dignità, ma segnala anche un’ulteriore tappa dello smantellamento di un welfare pubblico e universale che pensa alla salute come garanzia tanto della cura della malattia quanto come possibilità  di accedere al lavoro, di avere un’abitazione, di usufruire di spazi di socialità. 

Per questo la lotta di quegli operatori per il proprio posto deve diventare una battaglia di chiunque abbia a cuore l’idea di cura interpretata non solo come contenimento e istituzionalizzazione delle marginalità e delle vite scartate,  bensì come ambito che accompagna e abilita percorsi di inclusione e autonomia.  In cui la cura non è scaricata sulle famiglia – meglio detto, in una società ancora fortemente patriarcale come la nostra, sulle donne  – oppure piegata alle esigenze del mercato attarverso la privatizzazione diffusa di servizi e prestazioni.

Per queste ragioni credo che il mondo, tutto il mondo della cooperazione sociale, insieme alle associazioni e alle organizzazioni di cittadinanza attiva debba schierarsi a fianco delle operatrici e  degli operatori  che già in questi giorni si stanno mobilitando in difesa del loro lavoro e per difendere l’idea di un welfare pubblico e universale. Il mondo del lavoro sociale, socio-sanitario ed educativo debba dare vita a una mobilitazione unitaria per chiedere un ribaltamento delle politiche regionali sulla sanità e sul sociale. Chiedere con forza che al centro di tali politiche ci siano le persone, con parole come prossimità,  prevenzione e territorio. Parole che convengono alle persone e al pubblico perché, oltre ad arginare e impedire che le persone si ammalino o scivolino in situazioni da cui poi è quasi impossibile uscire, producono buona e minor spesa pubblica. Politiche, dunque, non solo giuste ma anche convenienti. Mentre le malattie, il contenimento e l’istituzionalizzazione delle persone convengono al privato.

In un Paese in cui lo Stato sembra aver rinunciato a considerare l’esigibilità dei diritti una propria responsabilità, in cui il Governo ostacola ogni ipotesi di welfare universale proponendo al contrario un impianto identitario, corporativo e paternalista, in cui sono gli operatori delle cooperative sociali e non il pubblico a difendere la funzione pubblica dei servizi, la lotta degli operatori e operatrici del consorzio “Gesco” riguarda tutte e tutti noi: operatori, educatori, cittadini e cittadine. Invece in questo quadro mi pare assurdo che almeno fino a ora, tranne poche eccezioni come quella del Cnca, vi sia un sostanziale silenzio del mondo del lavoro sociale e educativo e più in generale del terzo settore.

Se durerà, questo silenzio finirà per essere complice di un’eventuale sconfitta della lotta delle operatrici e degli operatori nonché del processo che sta smantellando l’idea stessa di cura in cui le nostre esperienze e i nostri servizi hanno trovato la loro ragione di essere. E cioè esser protagonisti della costruzione di un welfare pubblico  che piuttosto che contenere e fare del bene prova a costruire e tutelare diritti.

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