Mondo

Nairobi: sesto Internet Governance Forum, questione di democrazia

di Giulio Albanese

Ho seguito con grande interesse in questi giorni il sesto “Internet Governance Forum” che si è svolto a Nairobi (Kenya) . Delegazioni di tutto il mondo hanno discusso sulla Rete, dal 27 al 30 settembre, come strumento di democrazia e eguaglianza in una stagione della storia umana caratterizzata dalla “primavera araba”, avvenuta grazie soprattutto all’azione sinergica impressa da social networks come Facebook e Twitter.

Non a caso lo slogan della sesta edizione del Forum è stato “Internet come catalizzatore del cambiamento: accesso, sviluppo, libertà e innovazione”. Come era prevedibile, il dibattito ha enfatizzato il significato dell’Internet Governance non come attività marginale, ma in quanto elemento centrale del programma di sviluppo internazionale che offre nuove forme di crescita economica, innovazione, nuove libertà e diritti umani. Tra i temi principali: l’utilizzo della banda larga, i cui costi sono ancora proibitivi per molti Paesi in via di sviluppo. E poi l’ammonimento rivolto provocatoriamente a quei governi – africani in primis – che vorrebbero tassare chi usa Google e Facebook. D’altronde, non è oro tutto quello che luccica: vi sono infatti ancora molti sistemi totalitari – dall’Africa al Medio Oriente, alla Cina – che praticano sistematicamente la censura online. Per non parlare delle polemiche scaturite in Francia a seguito della legge Hadopi dedicata al diritto d’autore; una normativa al centro di un dibattito infuocato anche in Italia. Guardando, poi, allo scenario della globalizzazione, va considerato che Internet rappresenta il 21% della crescita del Pil nei Paesi industrializzati, mentre l’e-commerce ha generato un giro d’affari di quasi 8mila miliardi di dollari a riprova che vi è comunque il bisogno di tutelare gli utenti dalle aggressioni di un mercato “senza regole” anche in Rete.

Il cammino è comunque ancora tutto in salita per i Paesi in via di sviluppo dove solo il 21% della popolazione naviga in Internet, a fronte del 69% nei Paesi industrializzati. È per questo motivo che oggi la Rete è più che mai “terra di missione”, secondo il professor Sergio Pillon, grande sostenitore della Telemedicina. Una cosa è certa: le information highways, le cosiddette autostrade dell’informatica e dell’informazione, non sono solo il sistema nervoso digitale di questa o quell’azienda, ma anche una sorta di crocevia antropologico in cui è possibile esprimere un’identità, coltivando relazioni. Lo sanno bene i nostri missionari che, peraltro, hanno iniziato a utilizzare Internet – prima di molte altre categorie sociali – addirittura nella prima metà degli anni 90, testimoniando il Vangelo. Ben venga, insomma, un grande forum su questi temi, purché si tenga alta l’attenzione nei confronti dei più deboli. Quelli delle periferie del villaggio globale. Quelli a cui è negato il diritto alla vita, come nel Corno d’Africa.

Sono state 125 le delegazioni nazionali presenti al Forum, di cui 53% appartenenti all’Africa, 29% all’Europa occidentale e agli altri Paesi, 11% all’Asia, il 4% ai paesi dell’America Latina e Caraibica e il 3% ai paesi dell’Europa orientale. Numericamente scarse le presenze al Forum da Cina Francia e Russia. Comunque, un’organizzazione poderosa quella allestita a Nairobi, con trasmissione in streaming e trascrizioni in tempo reale dei workshop. A riprova che la Rete sta sempre più assumendo un’importanza rilevantissima nel villaggio globale.

Uno degli errori che viene commesso frequentemente da coloro che si accostano alla Rete con un background culturale “pre-digitale”, è infatti quello di considerarla come un momento a sé stante dell’esistenza umana. Sì, quasi vi fosse da una parte la vita “reale” e dall’altra quella “virtuale”, sancendo una distinzione tra due diverse realtà. Per carità, si può anche vivere senza cellulare, ma i modelli e i paradigmi odierni sono qualcosa d’ineluttabile, forme espressive, linguaggi che fanno parte dello stile di vita delle nuove generazioni e dei loro stessi educatori. Alla prova dei fatti, la nostra è sempre più una vita iperconnessa, con il telefono e gli sms, con la posta elettronica e il Web. Ciò che conta è fare della rivoluzione digitale un’opportunità per favorire la crescita integrale della persona umana, come peraltro auspicato, qui in Italia, dal Convegno ecclesiale dello scorso anno “Testimoni digitali”. Sta a noi non rimanere semplici comparse, anche se la cybersocietà è ancora tutta da esplorare e il deterioramento dei rapporti sociali tradizionali è pur sempre un rischio. In questa prospettiva, la Rete fa sì che vi sia spazio per il bene e per il male senza distinzione, rimandando alla maturità del navigatore la scelta di accostarsi a siti diversi.

Tornando al Forum di Nairobi, primo di questa portata nell’Africa Subsahariana, ho trovato interessante la proposta formulata da “Free Open Source Software for Africa” (Fossfa), un’organizzazione che sta cercando di convincere i governi e gli uomini d’affari dei Paesi africani a usare software liberi o open source. Ma di cosa stiamo parlando? Tutti i software, e quindi anche i sistemi operativi, sono formati da codici, una serie di comandi che consentono l’interazione fra il computer e l’utente. Nel caso dei software proprietari questo codice è “chiuso”: solo il produttore può intervenire per modificarlo e quindi modificare il programma. Nel caso dei sistemi operativi liberi il codice sorgente dei software è aperto (open source), ovvero chiunque voglia e ne è capace, può modificare il software a proprio piacimento e per le proprie necessità senza incorrere in nessuna violazione del Copyright; anzi questa sua modifica se condivisa sarà un miglioramento che servirà anche ad altri e diventerà un nuovo punto di partenza per ulteriori miglioramenti collettivi. Un altro aspetto da non sottovalutare è quello legato al mercato dopato software proprietario/computer: la realizzazione di software sempre più dispendiosi, dal punto di vista della potenza di calcolo del computer, implica, se non obbligano, all’acquisto di computer sempre più potenti, che a loro volta permetteranno di realizzare software ancora più dispendiosi. I sistemi operativi liberi, permettono, invece, di poter utilizzare anche computer non proprio nuovissimi e quindi scardinando il circolo vizioso dell’acquisto compulsivo di computer sempre più potenti. A questo proposito i paesi del Sud del mondo e quelli africani in particolare dovrebbero assumersi le proprie responsabilità, considerando peraltro che in tempo di crisi è importante saper risparmiare in maniera intelligente. Un altro tema estremamente dibattuto a Nairobi è stato quello relativo all’utilizzo della banda larga per gli operatori di telefonia mobile, i cui costi sono ancora proibitivi per molti Paesi africani. La posta in gioco è alta se si considera, come ha dichiarato Frank La Rue, autore del documento per l’Onu “Sulla protezione e la promozione del diritto alla libertà di espressione e opinione”, “Internet è uno dei diritti umani”.

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