Conflitti

Nagorno-Karabakh, una guerra al terzo atto

La diplomazia europea è stata colta di sorpresa dal riaccendersi del conflitto. Dal dicembre del 2021 era in corso un'intensa azione di mediazione che aveva portato il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente azero Ilham Aliyev a riannodare il filo del dialogo per arrivare a un trattato di pace. Ma se la diplomazia europea conta qualcosa deve almeno riprovarci

di Paolo Bergamaschi

Profughi armeni dal Nagorno-Karabakh

Il terzo capitolo della guerra in Nagorno-Karabakh, come era prevedibile, è durato poche ore. Troppa la disparità delle forze in campo. Da una parte le milizie dei separatisti armeni ormai debilitate da nove mesi di un blocco terrestre che aveva tagliato i collegamenti, e quindi i rifornimenti, con l’Armenia; dall’altra la forza d’urto di un esercito regolare azero dotato di moderni armamenti.

La prima guerra in Nagorno Karabakh era durata sei anni. Si era conclusa nel 1994 con la schiacciante vittoria dei separatisti, spalleggiati dall’esercito di Erevan, che avevano dichiarato l’indipendenza dell’enclave montuosa occupando il 20% di territorio internazionalmente riconosciuto come parte dell’Azerbaigian. Tre anni fa il secondo capitolo del conflitto con la situazione che si ribalta. In un mese e mezzo gli azeri riprendono il controllo di buona parte della regione fermandosi a ridosso del Nagorno Karabakh vero e proprio dopo un accordo di cessate-il-fuoco mediato da Vladimir Putin che avrebbe dovuto essere garantito da un contingente di 2000 soldati russi. Più di 20.000 morti nella prima guerra, 7000 nella seconda, 200 nella terza. Trent’anni di campagne di odio etnico e demonizzazione reciproca fra Armeni e Azeri su un confine che anche nelle pause del conflitto restava incandescente e seminava morte in una regione, il Caucaso, che è un groviglio di gruppi etnici che a parti inverse costituiscono maggioranze o minoranze a seconda del lembo di terra che occupano. Il terzo capitolo di questa guerra è, probabilmente, quello finale.

La diplomazia europea è stata colta di sorpresa dal repentino sviluppo della situazione. Dal dicembre del 2021 era in corso un’intensa azione di mediazione che aveva portato il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente azero Ilham Aliyev a riannodare il filo del dialogo per arrivare a un trattato di pace. I negoziati, sotto la supervisione europea, sembravano in dirittura di arrivo. Pashinyan aveva, finalmente, riconosciuto l’integrità territoriale dell’Azerbaigian rimuovendo il principale ostacolo ad un accordo complessivo. Puntava a ottenere uno statuto di autonomia per la comunità armena del Nagorno Karabakh. La svolta militare di questi ultimi giorni vanifica, purtroppo, i suoi sforzi. Scorrono intanto sugli schermi le drammatiche immagini dell’esodo delle migliaia di profughi che abbandonano la terra di origine attraverso il corridoio di Lachin per rifugiarsi in Armenia mentre nelle piazze di Erevan monta la protesta contro il governo accusato di non avere difeso ciò che, in realtà, non poteva difendere. L’Armenia, infatti, ha appaltato la sua sicurezza alla Russia ma la Russia se ne è guardata bene dall’intervenire nonostante gli appelli disperati dell’alleato. Agli occhi del Cremlino, peraltro, Pashinyan appare come una pericolosa anomalia visto che è salito al potere nel 2018 dopo elezioni libere che hanno scalzato gli accoliti di Mosca. Un regime che gode di legittimità democratica rappresenta una minaccia agli occhi di Putin; potrebbe invogliare i russi a fare altrettanto a casa propria. Perchè non approfittare, quindi, di questa situazione per stringere i rapporti con Baku scaricando lo scomodo partner?

A Bruxelles, nel frattempo, si leccano le ferite interrogandosi sul da farsi. La prossima settimana a Granada ai margini della riunione della Comunità Politica Europea dovrebbe svolgersi un nuovo vertice fra Aliyev e Pashinyan per continuare un processo di pace messo a dura prova dagli ultimi sviluppi. Da Baku ripetono che tutti i diritti dei cittadini azeri di etnia armena verranno rispettati. Nessuno, però, parla più di autonomia o di organi di autogoverno della minoranza. Spetta alle autorità azere, ora, convincere la comunità armena che ha ancora un futuro nel Nagorno Karabakh reintegrato nell’Azerbaigian. La fuga in massa dei civili verso l’Armenia sta trasformandosi, tuttavia, in una operazione indotta di pulizia etnica. Se gli Azeri hanno davvero la volontà di arrestare l’esodo devono mostrarlo con i fatti. Se la diplomazia europea conta qualcosa deve almeno provarci. Vincere la pace, a volte, risulta più difficile che vincere la guerra.               

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