Formazione

Myanmar, qui l’onda ha sommerso anche gli aiuti

Tsunami anno I. Il paese dove non ci sono state commemorazioni

di Pablo Trincia

Non sono bastati dodici mesi dal passaggio del muro d?acqua che ha rastrellato l?Oceano Indiano causando la morte di oltre 200mila persone, per fare luce su quello che rimane uno dei grandi misteri insoluti dell?era post tsunami: il Myanmar. Un anno fa, mentre il Sud-Est asiatico e l?Africa orientale si risvegliavano dall?incubo e cominciavano a contare vittime, dispersi e danni materiali, su queste stesse pagine scrivevamo dell?inquietante silenzio che incombeva sull?ex Birmania. L?unico Paese a non fare bilanci e a non chiedere aiuti. L?unico a non raccontare ai propri cittadini che cosa fosse davvero accaduto nelle regioni costiere meridionali, abitate da una popolazione di pescatori e dai Moken, ribattezzati gli ?zingari del mare?. L?unico a denunciare appena 90 morti, quando fonti indipendenti, tra cui organizzazioni di esuli e dissidenti politici, giuravano che il numero fosse almeno dieci volte superiore. Paese blindato Un silenzio assordante che continua ancora oggi e che ai più sembra ingiustificato e incomprensibile. Non la pensano così gli autocrati del regime militare, una dittatura divisa tra violento autoritarismo e superstizioni legate all?astrologia che spesso ne determinano importanti scelte politiche ed economiche. Tra queste credenze vi sarebbe quella che una catastrofe naturale è il preludio a un cambiamento imminente e radicale. Un?idea che avrebbe fatto rabbrividire i generali birmani, i quali avrebbero preferito insabbiare l?intera vicenda-tsunami per non destare chissà quali pensieri sovversivi nella pur poverissima popolazione locale. Nonostante ripetuti tentativi, non ci è stato possibile ottenere un commento da parte di alcun rappresentante del governo del Myanmar, che poco prima di prorogare di un anno gli arresti domiciliari dell?attivista premio Nobel per la pace, Daw Aung San Suu Kyi, ha deciso, spinto da chissà quale indovino o paranoia (si teme un improbabile attacco da parte degli Usa) di fare le valigie dal giorno alla notte e di spostare la capitale da Yangon alla località centrale Pyinmana. Di certo si sa solo che il Wfp – World Food Programme ha recentemente completato l?operazione degli aiuti a 15mila persone colpite direttamente e indirettamente dallo tsunami. Ma fonti vicine all?opposizione rivelano che per le altre organizzazioni non governative presenti nel paese ci sono misure restrittive che ne limitano i movimenti e fanno confluire consistenti percentuali degli aiuti nelle casse statali. Solo promesse Va però detto che il maremoto del 26 ha probabilmente mietuto molte più vittime birmane fuori dai confini nazionali, nella vicina Thailandia, dove si stima viva un milione di espatriati del Myanmar, tra dissidenti politici, profughi e lavoratori a giornata. Secondo le informazioni raccolte da Vita, almeno duemila immigrati, la maggior parte dei quali impiegati nei resort turistici nei dintorni di Phuket, sarebbero morti a causa dello tsunami. Oggi, a un anno da quella tragedia, solo 40 corpi sono stati riconosciuti dai familiari, mentre il resto giace irriconoscibile negli obitori. «Ma la cosa peggiore», dice Aung Myo Min, cooperante birmano impegnato nell?assistenza agli immigrati suoi connazionali nella città thailandese di Chiang Mai, «è stato l?atteggiamento del nostro governo e dell?ambasciata del Myanmar. Non hanno fatto assolutamente nulla per occuparsi del caso. Il motivo è semplice. Non vogliono ammettere la presenza di un così vasto numero di immigrati birmani in Thailandia». «Solo», continua Myo Min, «il governo di Bangkok si è attivato in qualche modo, promettendo un risarcimento a circa cento famiglie di immigrati con permesso regolare. Peccato però che quei 500 dollari non siano ancora arrivati».


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