Famiglia

Myanmar, chi se ne ricordava più?

Diritti umani. Le amnesie dell'Italia sul dramma del Paese asiatico

di Joshua Massarenti

Dialogare, dialogare, dialogare. L?Italia non si rassegna mai. Nemmeno di fronte alle peggiori forme di dittatura. Quella birmana è un caso da manuale. Che da anni vede la nostra classe dirigente impegnata a cavalcare l?onda del dialogo diplomatico per convincere una giunta militare tra le più feroci al mondo a cambiare radicalmente rotta e mettere in pratica principi basilari di democrazia rappresentativa. Sono trascorsi 19 anni e il risultato è sotto gli occhi di tutti: un premio Nobel per la pace costretta da quasi due decenni agli arresti domiciliari; oppositori politici e sindacalisti ridotti al silenzio (quando va bene) e un popolo stremato dalla fame e dalla miseria. C?è voluta la caparbietà dei monaci buddisti per far capire al mondo, e all?Italia, che le minacce di sanzioni, costellate da aperture al dialogo e lunghe pause di silenzio, non bastano più per far ragionare il regime sanguinario di Yangon.

Il dialogo critico
Già, le minacce. Quelle economiche ventilate il 25 settembre scorso da Bush all?Assemblea generale dell?Onu hanno avuto il merito di mettere allo scoperto la strategia fallimentare adottata dalla Farnesina. Memorabile fu la sciagurata decisione di assumere nel 2005 la guida del cosiddetto ?Bangkok process?, un?iniziativa di ?dialogo critico? con la giunta birmana attivata dalla Thailandia, e a cui presero parte alcuni Stati della regione del Sud-Est asiatico ed alcuni Paesi europei. Nonostante il clamoroso fallimento dell?iniziativa, il sottosegretario agli Esteri, Donato Di Santo ha dichiarato, nel corso di una recente seduta al Senato, che «formule di dialogo critico costituiscono lo strumento più efficace per tentare di promuovere sviluppi in Myanmar».

Di parere radicalmente opposto è Cecilia Brighi, responsabile Cisl per i rapporti con le istituzioni internazionali. «L?Italia», spiega a Vita la Brighi, «deve rassegnarsi all?idea che i militari birmani vanno affrontati di petto, asfissiando tutti i settori economici su cui la dittatura affida la sua sopravvivenza». Grazie agli ottimi rapporti economici con Cina, India e Russia (principali partner commerciali di Yangon), la vendita di gas naturale, legname, minerali, pietre preziose, prodotti ittici e tessile di abbigliamento ha sino ad ora consentito al regime di Than Shwe di fare buon viso a cattivo gioco.
«Ogni qualvolta il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite affronta il caso birmano», prosegue la Brighi, «Pechino e Mosca arginano critiche e minacce imponendo il loro diritto di veto». E il governo Prodi che fa? Sprofonda nella solita confusione. Da un lato, fa sapere per voce del suo sottosegretario agli Esteri, Gianni Vernetti, che «l?Italia è pronta ridurre i visti per i funzionari della giunta», mentre pochi giorni fa il collega Di Santo annuncia orgoglioso che il nostro Paese «ha organizzato e finanziato, per il prossimo ottobre, la partecipazione di funzionari birmani ad un corso di formazione in diritto umanitario presso l?Istituto internazionale di diritto umanitario di Sanremo».

L?annuncio ha suscitato le ire della Cisl, subito placate dalla segretaria generale dell?istituto, Stefania Baldini: «Formare funzionari provenienti da Paesi in cui le libertà fondamentali sono limitate fa parte della nostra mission. L?invito poi, è stato fatto dal governo, non dall?istituto, che rimane indipendente».
Dal passo falso sanremese nascono i contorni di una commedia il cui volto tragico è incarnato dal mondo imprenditoriale made in Italy. Sul sito dell?Icftu, la Confederazione internazionale dei sindacati liberi, si scopre infatti che su 459 multinazionali implicate in operazioni commerciali con aziende birmane, quattro sono italiane: Bedeschi, Snamprogetti (gruppo Eni), Lamborghini Tractors e Margaritelli Italia. «In realtà», precisa Cecilia Brighi, «sono coinvolte circa 2mila imprese italiane». Tra loro c?è l?Elettronica Aster, una società di equipaggiamenti elettronici, meccanici e idraulici con applicazione nel settore civile e della difesa.

Quei vuoti in piazza
Nel luglio scorso, l?Elettronica è stata chiamata in causa da Amnesty International e Saferworld per una vendita di sistemi di frenaggio destinati alla costruzione di un elicottero indiano che New Delhi avrebbe successivamente rigirato al regime birmano. Dalla sede dell?Elettronica, il responsabile dei rapporti commerciali con l?India, Edoardo Cupolo, sostiene che «l?India ci ha confermato che l?uso dell?elicottero sarà conforme alle leggi vigenti che proibiscono di esportare in Paesi sotto embargo come la Birmania». Pronta la risposta di Amnesty: «In realtà il governo indiano non ha mai chiarito le sue intenzioni».
A fare le spese di tanta complicità è naturalmente il popolo birmano. L?appello lanciato dal sindaco di Roma, Walter Veltroni, ha visto non più di quattro sigle partecipare alla manifestazione organizzata in Campidoglio il 24 settembre scorso. La presenza della Cisl non è infatti bastata a colmare il vuoto lasciato da realtà importanti come Amnesty International e la Tavola della pace. Goodnight Birmania.


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