La Lettura – il domenicale de Il Corriere – ha ospitato di recente due articoli dedicati al futuro del sistema di welfare. Il primo, firmato da Maurizio Ferrera, è una poderosa ricostruzione dei principali filoni politico culturali alla base dei diversi modelli di protezione sociale. Uno sforzo di sintesi che partendo da angolature diverse restitutisce una versione rinnovata del rapporto che tiene insieme i principi di libertà e eguaglianza. Ovvero i cardini della giustizia sociale: libertà come diritto all’autodeterminazione ed eguaglianza in riferimento alle opportunità. C’è poi una variabile trasversale che riguarda la scelta di un individuo di far parte di una collettività (che va dalla famiglia allo Stato) alla quale è demandato il compito, fondamentale, di definire la cornice di senso rispetto alle sue scelte. Ciò significa rappresentarne i diritti, ma anche contribuire fattivamente alla produzione di beni e di servizi che soddisfano i bisogni. Il neowelfare di Ferrera consiste quindi in politiche che operano ex ante, sulle capacitazioni degli individui e delle formazioni sociali di cui fanno parte. Un welfare che opera non in senso riparativo, ma nell’ottica di un “investimento sociale”.
Il secondo articolo, di Gianpiero della Zuanna è un’esemplificazione del modello teorizzato da Ferrera e fa riferimento al fenomeno del badantato. Un esempio emblematico secondo l’autore di come le famiglie italiane abbiano saputo autorganizzarsi al di fuori degli schemi tradizionali (tendenti al corporativismo), dando vita in un arco di tempo limitato a una nuova struttura d’offerta di protezione sociale diffusa capillarmente e in grado di rispondere in maniera efficace sia ai bisogni degli anziani (essere curati in casa) sia a quelli dei loro familiari e care giver.
E il non profit? Nessuna citazione. Nei due articoli non c’è nessun riferimento esplicito a quel complesso di attori che dovrebbero svolgere un ruolo importante nell’infrastrutturare le reti di protezione sociale tra gli ambiti micro delle famiglie e delle cerchie parentali e gli interventi istituzionali dello Stato o di altre organizzazioni private (ad esempio il welfare aziendale su grande scala). Certo leggendo tra le righe si possono cogliere, come mi facevano notare i redattori del sito Secondo Welfare, riferimenti chiari alla capacità di intraprendere delle organizzazioni della società civile in un quadro autenticamente sussidiario. D’altro canto l’esempio delle badanti rappresenta per il non profit (e in particolare per l’imprenditoria sociale) una spina nel fianco. Non solo perché il badantato è un competitor affermatosi in tempi e con risultati paragonabili a quelli che hanno contrassegnato l’evoluzione recente del non profit in Italia. Ma soprattutto perché, fino ad oggi, le organizzazioni sociali non sono riuscite a far valere in questo campo il loro modello di aggregazione collettiva a cui faceva riferimento l’articolo di Ferrera. La cornice di senso infatti è circoscritta al singolo nucleo familiare che organizza in relativa libertà, ma anche solitudine, la sua rete di cura.
Ma per meritarsi il “neo” ci vuole ben altro per il welfare. Occorre affermare meccanismi più sofisticati di organizzazione della domanda e di produzione delle risposte. Il mutualismo da questo punto di vista può rappresentare il principio intorno al quale dar vita a collettività più efficaci ed efficienti rispetto al modello pulviscolare imperniato sulle sole famiglie. Un bell’articolo pubblicato qualche tempo fa dalla rivista Welfare Oggi (disponibile su richiesta) analizzava il modello di servizio adottato da diverse agenzie gestite da imprese sociali per mutualizzare bisogni e risorse nel campo della cura delle persone anziane attraverso le assistenti domiciliari. Tutti i casi analizzati erano accomunati da una scarsa capacità di segmentare i bisogni delle famiglie rendendo così difficile il matching con le competenze professionali disponibili. Risultato: scarsa competitività con l’offerta low cost e in nero, e non solo per problemi di costi ma di efficacia. Correndo così il rischio di annoverare il non profit tra gli elementi di corporativismo che devono essere superati per dar vita al “neowelfare” che lo stesso non profit ha comunque contribuito a costruire (e non da oggi). Come dire: oltre al danno…
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