La giornata mondiale
Mutilazioni genitali femminili: poca conoscenza tra gli operatori e pochi servizi
Sono una grave violazione dei diritti umani e ragione di protezione umanitaria, ma in Italia mancano dati e personale formato capace di riconoscere le alterazioni che sono motivo di protezione umanitaria. Bisogna fare di più per queste vittime di un crimine che permane grazie alle forti diseguaglianze di genere, solo aggredendo le quali può essere eliminato
Si celebra oggi la giornata contro le mutilazioni genitali femminili, una ricorrenza istituita dalle Nazioni Unite per sensibilizzare l’opinione pubblica su una pratica che viola i diritti umani delle donne in tutto il mondo. Si stima venga subita da più di 230 milioni di ragazze e donne viventi oggi, eseguita in oltre trenta paesi dell’Africa, del Medio Oriente e dell’Asia su bambine e ragazze di età compresa tra l’infanzia e i 15 anni. Nel nostro paese, non si conosce la dimensione esatta del fenomeno; tuttavia, l’ultima indagine condotta dall’Università Bicocca rivela la presenza al primo gennaio 2018 di 87.600 donne con mutilazioni genitali femminili, di cui 7600 minorenni.
Conoscenza zero, pochi servizi
«Noi vediamo donne prevalentemente in arrivo dalla Nigeria, qualche caso da Iran e Iraq. Le donne dalla Nigeria che spesso raccontano di essere fuggite proprio per evitare di subire questa violenza. Vedono cosa succede alle altre e preferiscono attraversare il deserto che morire dissanguate» ci racconta la ginecologa Marina Toschi, già presidente dell’Associazione dei ginecologi territoriali, referente per la Ausl 1 di Perugia per le mutilazioni genitali, attività che continua a svolgere da pensionata volontaria al consultorio cittadino in virtù di una convenzione tra asl e l’associazione no profit “Maka Centro studi antropologici su corpi, generi e modificazioni genitali”, che oggi organizza un evento in via Alessi a Perugia. «In una piccola città come Perugia, ne abbiamo documentate circa 150 in dieci anni» racconta, puntando il dito contro gli operatori dei centri di accoglienza, forze dell’ordine, servizi di immigrazione, operatori del territorio come sanitari e clinici: «In primo luogo, bisogna saper riconoscere una mutilazione e un’alterazione genitale, non solo l’infibulazione ma anche la più piccola mutilazione. Penso ai pediatri che vedono le bambine prime e dopo un viaggio nel loro paese d’origine con la famiglia o all’ostetrica che vede la donna per il pap-test. Manca la formazione del personale. In ogni asl dovrebbe esserci una referente per le mutilazioni genitali, invece non è così». In secondo luogo, continua Toschi, «bisogna sapere che mutilazioni e modificazioni genitali femminili sono motivo di protezione umanitaria, quando c’è un certificato medico che sancisce il riconoscimento ufficiale di tale condizione, come stabilito dal Trattato di Istanbul».
La mancanza di conoscenza di questo crimine emerge anche da uno studio, una survey online su oltre 300 medici, in particolare ginecologi, ostetriche e pediatri, presentato durante un evento organizzato dall’Istituto superiore di sanità e dall’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove Walter Malorni direttore scientifico del Centro di ricerca in Salute globale ha annunciato la volontà di costruire «una rete nazionale che non solo diffonda consapevolezza, ma offra soluzioni concrete per la prevenzione e il trattamento delle conseguenze delle mutilazioni genitali e che possa agire su tutto il territorio nazionale con la collaborazione della medicina territoriale e della Croce Rossa. L’idea è di proporre al Dipartimento pari Opportunità che si occupa attivamente della questione un Osservatorio Nazionale, una attività di formazione degli operatori sanitari inclusi i mediatori culturali e di comunicazione».
Le mutilazioni
Sono un insieme di pratiche che vanno dall’incisione alla rimozione parziale o totale dei genitali esterni femminili. L’Oms disingue quattro tipi di mutilazioni: la clitoridectomia, rimozione parziale o totale del glande clitorideo o, più raramente, del prepuzio clitorideo; l’escissione, che è la rimozione parziale o totale della clitoride e delle piccole labbra, con o senza escissione delle grandi labbra; l’infibulazione: restringimento dell’apertura vaginale attraverso la creazione di una copertura formata dal taglio e riposizionamento delle piccole o grandi labbra, con o senza asportazione della clitoride; tutti gli altri, che sono tutti gli interventi dannosi sugli organi genitali femminili, quali la punzonatura, la perforazione, l’incisione, la raschiatura e la cauterizzazione dell’area genitale.
Tra le conseguenze ci sono morte per dissanguamento, dolore intenso e sanguinamento eccessivo, difficoltà a urinare, cisti, infezioni e infertilità, problemi psicologici e psichici, diminuzione del piacere sessuale, complicazioni durante il parto e maggior rischio di decessi neonatali.
Informare cambia la vita
In Italia, la sua pratica porta alla decadenza dall’esercizio della responsabilità genitoriale e all’interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela e all’amministrazione di sostegno. Le bambine nate in Italia non sono esenti da rischi. La prevenzione si può fare, ma bisogna parlare alle donne e servono operatori formati, pediatre e pediatri e infermiere e infermieri pediatrici, medici e dottoresse di base e infermieri di medicina generale, medicina di comunità, servizi sanitari e della salute riproduttiva. Servono incontri pubblici. La consapevolezza del fenomeno, spiega Toschi, «induce cambiamenti reali nei comportamenti, quindi servono modalità efficaci di comunicazione interculturale che mettano in luce l’intera rete di significati che danno senso alla pratica». Ma, intanto, anche solo un incontro in consultorio può bastare a dare il via alla consapevolezza: «Quando spieghiamo loro perché prestiamo tanta attenzione a queste mutilazioni, che si tratta di una violenza dalle importanti conseguenze di salute fisica e psicologica e che da il diritto alla protezione e al diritto di asilo le cose cambiano. E comunque nessuna di loro vorrebbe che lo stesso fosse fatto alla propria bambina» continua Toschi. Parlando si aprono nuove vite, anche per le persone più insospettabili. Racconta la ginecologa che una ragazza vittima di mutilazione cui aveva fatto la dichiarazione medica e che poi aveva lasciato l’Abruzzo, «mi venne a trovare dopo tanti anni per farmi conoscere i suoi due figli e mi raccontò che in Commissione, alla lettura del certificato, l’addetta fino ad allora burbera e indisposta si mise a piangere e le disse “L’Africa le ha fatto questo e l’Italia l’accoglie”, era cambiato quindi completamente atteggiamento verso la mia paziente».
Abbattere le diseguaglianze di genere
«La pratica è riconosciuta a livello internazionale come una violazione dei diritti umani che riflette una disuguaglianza profondamente radicata tra i sessi» spiega l’Oms. Le linee guida dell’Unhcr ritengono le mutilazioni genitali femminili una forma di violenza basata sul genere che infligge grave danno, sia fisico che mentale, e costituisce persecuzione. Le ferite psichiche di questa violenza e la subalternità economica favoriscono il mantenimento di un ruolo sociale subalterno e le disparità nelle relazioni di genere. Il problema alla base di questo crimine è il permanere di forti diseguaglianze di genere che impediscono alle donne di sottrarsi a questo crime culturalmente giustificato. Raccomanda infatti l’Oms, nella risoluzione Wha61.16 del 2008 per l’eliminazione di questa violazione dei diritti umani delle ragazze e delle donne, la necessità di un’azione concertata in tutti i settori, come istruzione, finanza, giustizia e pari opportunità delle donne, non solo in quello sanitario.
«Le donne con cui parliamo finiscono per capire la violenza, i propri diritti e il proprio corpo, trovano un lavoro, si integrano e cambiano perfino volto» racconta Toschi che, mettendo in guardia contro un certo pregiudizio culturale di superiorità che a volte muove all’indignazione e alla denuncia di questi crimini, conclude ricordando i pregiudizi e i condizionamenti culturali cui le donne, senza rendersene conto, sono vittime anche da noi: «Facciamone un’occasione di riflessione sulle molteplici forme e usi del corpo, dei processi di costruzione delle identità e dei generi, dei rapporti di forza che regolano le relazioni sociali in un mondo profondamente diseguale, anche nel nostro paese e non solo in quelli di origine di queste ragazze».
Foto di Joshua Hanson su Unsplash
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