Nel cuore dell’Africa Subsahariana si stanno delineando, dall’inizio di quest’anno, alcuni scenari inediti che la comunità internazionale sta sottovalutando. Si tratta, dal punto di vista geopolitico, di un cambiamento nei già precari equilibri che regolano le relazioni tra alcuni Paesi africani, allineati tra le sponda atlantica e quella dell’Oceano Indiano, strategici in termini di materie prime e fonti energetiche. Ma per comprendere quanto sta realmente avvenendo sul campo, occorre anzitutto riconoscere che la progressiva parcellizzazione del continente in aree di interesse, da parte di numerosissime compagnie straniere (cinesi, statunitensi, canadesi, francesi, russe…) ha consentito al cosiddetto Islam radicale di insinuarsi in quello che alcuni analisti hanno pertinentemente definito come “un complesso ginepraio di relazioni commerciali e politiche con le oligarchie locali”. In effetti, sul fatto che il jihadismo, di matrice salafita, tentasse di spingersi a meridione, oltre la fascia desertica sahariana, non vi erano dubbi. L’intervento militare francese, nella regione maliana dell’Azawad, resosi necessario lo scorso gennaio, sembrava avesse, almeno in parte, scongiurato il pericolo di derive terroristiche. Eppure, quanto è avvenuto sul versante saheliano, ha distratto l’attenzione di molti osservatori che consideravano il Mali come il canale esclusivo di accesso dell’estremismo islamico nel cuore dell’Africa. Sebbene alcuni gruppi eversivi come i Boko Haram della Nigeria dipendessero dagli approvvigionamenti di armi e munizioni provenienti dal Mali, le forze jihadiste hanno contemporaneamente aperto un secondo fronte. Infatti, sul versante opposto, quello della Repubblica Centrafricana, in questi mesi, ha preso il potere una misteriosa coalizione armata denominata Séléka. Al suo interno, oltre ad alcuni oppositori al regime dell’ex presidente François Bozizé, militano mercenari libici, sudanesi e ciadiani di fede islamica e di lingua araba. La loro condotta impietosa e spregiudicata, nei confronti della stremata popolazione civile, ha sollevato la protesta della società civile e in particolare della Chiesa Cattolica. Da rilevare che dietro le quinte si cela la volontà di conquista, da parte del Nord Sudan e del Ciad, di un territorio ricco di giacimenti di uranio e petrolio. Purtroppo, il graduale consolidamento politico del Séléka ha permesso ai mercenari di cui sopra di sconfinare nella vicina Repubblica Democratica del Congo (Rdc) e di seguire una direttrice che li ha portati, nel giro di un paio di mesi, in prossimità della catena del Ruwenzori, le mitiche Montagne della Luna. Non è un caso se molti dei rifugiati congolesi che hanno trovato riparo in Uganda nel distretto occidentale di Bundibugyo, hanno raccontato, in questi giorni, di aver incontrato, prima di lasciare il loro Paese, ribelli arabi, inquadrati nelle Allied Democratic Forces (Adf). Si tratta di una formazione armata ugandese che proprio nell’ex Zaire ha allestito le proprie basi operative. In effetti, all’interno dell’Adf, già in passato,era evidente la matrice islamica, non foss’altro perché il suo ispiratore storico è stato un certo Jamil Mukulu legato alla setta musulmana dei Tabliq ugandesi. Ma ultimamente, secondo i racconti dei profughi congolesi, sarebbero giunti dal nord soldati di ventura di lingua araba, incapaci di parlare luganda, la lingua tradizionale dei ribelli ugandesi e soprattutto il swahili che è la lingua franca dei militari. Sta di fatto che lo scenario è inquietante se si considera che gran parte della fascia occidentale della Rdc è infestata di formazioni armate. Basti pensare ai ribelli del Movimento M 23 che minacciano, da un momento all’altro, di riprendere le ostilità contro il governo di Kinshasa. Per non parlare dei famigerati ribelli nordugandesi del Lord’s Resistance Army (Lra) che fanno la sponda costantemente tra Congo, Repubblica Centrafricana e Sudan. E mentre il governo di Kinshasa è in affanno per le divisioni interne alla variegata arena politica congolese, Uganda e Rwanda potrebbero intervenire militarmente nell’ex Zaire col pretesto di salvaguardare l’integrità dei propri confini. Il rischio è di una guerra regionale di “tutti contro tutti”, con l’aggravante delle infiltrazioni jihadiste che non erano mai state registrate a quella latitudine.
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