Cultura

Musica e munnezza: che miracolo ‘sta Napoli

John Turturro

di Marco Dotti

Ci sono posti in cui vai una volta sola e ti basta. Ma poi c’è… Napoli». Si apre così Passione, l’ultimo lavoro di John Turturro, un’avventura musicale e umana nel cuore di una città che, racconta l’attore e regista italo-americano, «è talmente carica di contraddizioni vitali da indurre talvolta all’illusione che siano necessari alcuni accorgimenti e “istruzioni per l’uso” per poterla guardare».
Proprio per questo, osserva Turturro, «Napoli è la città sulla quale si concentrano il maggior numero di stereotipi. Tale è la sua poliedricità, la sua capacità di sfuggire e rifuggire da un immaginario che si vorrebbe inesorabilmente rinchiudere in una bottiglietta di vetro per turisti, come quella che nei vecchi film il guappo di turno voleva piazzare a qualche sprovveduto turista». Oggi, però, sono gli italiani, più che i turisti, a non vedere Napoli, se non attraverso la lente dell’emergenza e della disperazione.
Come si fa ad amare ancora l’Italia?
Ascoltandola, corteggiandola, sentendola. L’Italia non è una donna facile, né da conquistare né da capire. Chi pretende di comprarsela come si comprano un’automobile, una cartolina o un abito nuovo, ovviamente non la capirà e se ne andrà via deluso. Ma è giusto così: è una questione di fiducia reciproca. Fìdati, e lei si fiderà di te. Dònati, e lei si donerà. Al tempo stesso, questo Paese di cui “voi” italiani – ma dire “voi” italiani è una faccenda non da poco, che potrebbe occuparci in infinite discussioni – diffidate sempre di più, è pur sempre un Paese di cui diffidate a metà. A Milano, forse, si ha diffidenza per Napoli, ma non per Milano. Poi vai a Roma e a Roma diffidano di Milano. Semplifico le cose, ovviamente, ma anche nella semplificazione credo risalti un tratto distintivo di questo mondo preso e ripreso da una frenesia immotivata e naturale: si diffida sempre dell’altro, mai di sé. Ma alla lunga, diffidando dell’altro, si finisce per non credere più in nulla, nemmeno in se stessi.
Non pensa sia in parte dovuto a una tonalità emotiva generale, lo spaesamento? Per tutto il XX secolo gli italiani sono stati un popolo migrante…
Io sono americano, stando al mio passaporto. Io e lei, ora, parliamo in inglese, ma parliamo dell’Italia. Attorno a noi ci sono persone che parlano in italiano e, magari, sono di madrelingua inglese. Oggi è tutto più facile e più complesso. Non lo dico per un gioco di parole, lo dico perché va prestata attenzione, al mondo. Ascoltare, ascoltare e ancora ascoltare: non c’è altra strada. Mio padre era di origini pugliesi, nato a Giovinazzo, emigrò per fare il manovale. Mia madre era di origini siciliane e cantava. Io faccio l’attore, e non mi dimentico di loro, né da dove vengo. È nelle pieghe delle infinite storie di tutti noi che si nascondono quei ricordi che muovono e smuovono, quelli che ci spingono non solo ad andare avanti, giorno dopo giorno, ma a desiderare di vivere in un mondo più giusto. L’Italia è una donna complicata e piena di contraddizioni, come tutti, come la vita. Solo che queste contraddizioni possono essere la sua ricchezza e, l’istante dopo, la sua sconsolante miseria. Ma anche lì, anche nei suoi chiaroscuri, è difficile che non ti sorprenda. Occorre però uscire dalle cartoline illustrate che spesso i mezzi di comunicazione propongono, anche agli stessi italiani: pizza, chitarra, mandolino…
Oggi, però, Napoli appare più munnezza che mandolino. Come si fa a uscire dagli stereotipi?
Basta davvero poco. Passione, titolo inflazionato se vogliamo, quasi miracolosamente a fronte dei pochi mezzi che avevamo per girarlo e delle poche sale che abbiamo avuto per mostrarlo, ha smosso davvero passione… Ecco, io credo che sia meno un po’ meno facile disarmarci. Cosa succede quando leggiamo un libro, andiamo a teatro, cantiamo, amiamo? Se a muoverci è la passione possiamo pure cadere, farci male, romperci le ossa. Ma statene certi che, anche rotti, ci rialzeremo comunque… Che cosa sono le passioni, d’altronde, se non ciò che va al di là dell’intenzione?
Come una canzone?
Come una canzone. Quello che ho trovato nelle canzoni napoletane – anche in quelle che non ho potuto, per ragioni di regia, mettere nel film – è una tale quantità di energia che, se liberata, potrebbe davvero smuovere le pietre. Durante le riprese del film, nei vicoli, tra le case o al mercato, il rapporto con la gente è stato fantastico e problematico. Fantastico proprio perché problematico. Arrivo io, il regista, poi i cantanti, montiamo tutto, ad esempio in un mercato, e iniziamo le riprese e subito… E subito ognuno, in quel mercato, vuole dire la sua, che non ci si muove così, che non si canta così – anche se il girato prevedeva il playback per le canzoni – che si fa in quest’altro modo. Tutto un mondo che si animava, attorno a quell’elemento a priva vista estraneo – camere di ripresa, luci, un regista, microfonisti etc. – e artificioso, che la gente sapeva però cogliere nel suo tratto essenziale. È solo gente al mercato, dicevo ai miei attori, sono io il regista. Certo, mi rispondevano, è solo gente al mercato, ma non vedi che cosa succede, che energia si sta creando? Si doveva fare in fretta, ma con cura. Improvvisare, talvolta, perché le discussioni ci avrebbero preso mesi e anni. È il clima della città, quello che in negativo viene definito il “tirare a campare”, ma ha pure aspetti che collimano con la necessità di cogliere quell’energia e quella forza che solo in certi istanti si sprigionano. Devo dire che questo è possibile solo a Napoli.
Nella scelta delle canzoni, questa energia infatti si sente…
Nelle canzoni e nei loro arrangiamenti, direi. Perché per ogni canzone esistono decine, talvolta centinaia di arrangiamenti e questo ha richiesto mesi di studio e, ancora una volta, infinite discussioni. L’energia si sente perché c’è, e non volevo fare un film nostalgico o romantico, ma un film di passione. Ma l’energia si sente anche nel sax e nella voce di James Senese, che è tanto più potente quanto più è struggente. Ti graffia e ti segna. Come Napoli.


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