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Musei americani, il sociale è solo di facciata
Le centinaia di persone licenziate si sono costituite in una rappresentanza, il NYC Art Workers, che ha reso pubblica una petizione che pone domande che mettono in discussione il sistema: «Perché si sostiene l’arte dai contenuti radicali e poi si fanno scelte socialmente così devastanti?»
Continua l’ondata di licenziamenti nei musei americani. Dopo l’annuncio del MoMA di tagliare tutto il dipartimento educativo, ne abbiamo parlato in questo articolo "New York, il lato infame del sistema dell’arte contemporanea", è arrivato quello dell’altra grande istituzione di New York, il Metropolitan Museum che ha lasciato a casa 81 addetti ai servizi di accoglienza.
Per giustificare la decisione la direzione ha spiegato che il Coronavirus causerà una diminuzione delle entrate nell’ordine di 150milioni di dollari. Per addolcire la pillola è stato anche reso noto che la dirigenza del museo ha accettato un taglio dei propri stipendi tra il 10 e il 20%. Il fronte della protesta però si sta allargando. Nella Grande Mela si è costituito il NYC Art Workers, un gruppo che raduna una coalizione di operatori che lavoravano in alcuni dei maggiori musei della città – Dia Art Foundation, New Museum, Smithsonian Museum, e Studio Museum ad Harlem – oltre che al MoMA e al Metropolitan. Hanno anche steso una petizione che non si limita a rivendicare i propri diritti ma pone in questione le logiche su cui si regge il sistema, in particolare quello dell’arte contemporanea. «Vogliamo porre una semplice domanda: prima che un lavoratore venga licenziato, non si può pensare che ogni direttore di museo a sei o sette cifre diventi per una volta uno stipendio pari a zero? E non si può pensare alla cessione di qualche opera d’arte di secondaria importanza?».
I tagli annunciati da molti musei agli stipendi dei vertici vengono giudicati «vuoti gesti di solidarietà finanziaria», che non mitigano l’effetto devastante dal punto di vista sociale dei finanziamenti. In effetti lo stipendio del direttore del Metropolitan, Max Hollein, entrato in carica a metà del 2019 è stato di 764mila dollari per i sei mesi dello scorso anno. Mentre Lauren Meserve, chief investment officer dello stesso museo ha guadagnato lo scorso anno 1,6 milioni di dollari con un incremento dell’8,3% sull’anno prima: i tagli annunciati quindi tutt’al più li riportano ai livelli precedenti. Hollein ha preso il posto di Thomas Campbell, che percepiva uno stipendio di 3milioni di dollari e che ora è diventato direttore del Fine Arts Museum di San Francisco».
Ma l’affondo più interessante è quello contenuto nella parte finale della lettera, che mette in luce una contraddizione che non è solo carattere economico. «Non è mai stato così evidente come coloro che stanno al timone del mondo dell’arte siano felici di crogiolarsi con i contenuti più radicali nell'arte di oggi senza mai preoccuparsi di implementare quella stessa politica nelle loro pratiche istituzionali».
Il Coronavirus ha smascherato questa incoerenza di fondo, scrivono nella loro lettera gli esponenti di NYC Art Workers: «Ci devono spiegare la discrepanza tra i contenuti artistici che vengono sostenuti e sbandierati e le scelte che poi vengono attuate». Il riferimento è al fatto che tanti degli artisti preferiti e in tanti casi “coccolati” dal sistema propongano opere con visioni sociali molto radicali: ma questo più che un impegno sembra un vezzo da parte di una leadership culturale attenta a mostrarsi sempre “politicamente corretta” e sensibile sulle emergenze sociali, ma che nella realtà si muove con le logiche del capitalismo più brutale .
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