Mondo

Muoversi nella società dell’insicurezza e delle paure

Vita.it ha letto "La globalizzazione difficile" (Mondadori 2018) di Mario Giro, membro di Comunità di Sant'Egidio e mediatore di conflitti internazionali: 154 pagine dense di sfide più attuali che mai e stimoli per non dare nulla per scontato

di Daniele Biella

Siamo “nell’età dello spaesamento, che è quella dell’insicurezza: non sappiamo più tanto chi siamo né da che parte stare; schierarsi era più facile durante la guerra fredda”. Non usa mezzi termini Mario Giro, membro storico di Comunità di Sant’Egidio e viceministro degli Esteri uscente, nel suo nuovo libro La globalizzazione difficile, uscito di recente per Mondadori.

Quello che potrebbe essere un titolo degno di un saggio, serio ma statico, in realtà risulta un lavoro frizzante e pieno di riferimenti liquidi a una società in continua evoluzione, nel bene o nel male. Fin da subito Giro, che da metà degli anni ’90 in poi è stato coinvolto nei vari processi di pace in cui Sant’Egidio ha svolto un ruolo centrale di mediazione (tra gli altri Algeria 1994-1995, Kosovo 1999, Liberia 2004-2005, Nord Uganda 2006-2008, Niger 2011), porta infatti la globalizzazione al centro dell’era attuale, definita “postmoderna” con forti richiami al vuoto di valori o alle “passioni tristi” ben descritte dallo psicanalista argentino Miguel Benasayag. “La postmodernità trasforma tutti in discepoli dell’attivismo del benessere materiale e corporale – dove wellness, stare bene, prende il posto di happiness, felicità – e moltiplica i bisogni”, scrive Giro.

E ancora, sull’individualismo che ne deriva: “una società è forte quando è sicura dei valori che la formano e delle istituzioni che la innervano. Progressivamente questo tessuto sta venendo meno: la forza dei partiti è scarsa, quella dei sindacati declinante, l’associazionismo effimero”, affermazioni che muovono dall’autocritica a un forte sentimento di speranza di cambiamento per il futuro, che si ritrova nelle successive parole prese da papa Benedetto XVI quando si rivolge alle popolazioni europee, e quindi anche all’Italia: “L’Europa pare volersi congedare dalla storia[…]. Questa profonda insicurezza sull’uomo stesso, accanto alla volontà di avere la vita tutta per se stessi, è forse la ragione più profonda, per cui il rischio di avere figli appare a molti una cosa quasi non più sostenibile”.

In tutto questo scenario domina una sola cosa: la paura. Paura come “risultato demografico di una società con meno giovani e più anziani, quindi più fragile ed esposta”, ma anche “paura come démone”, citando il filosofo Zygmunt Bauman, venuto a mancare nel 2017. Paura “isterica, che non ama il ricordo né il ragionamento, pretende immaginarie soluzioni immediate” che si concentra in Europa soprattutto su un obiettivo: gli “stranieri”. Dove “straniero è tutto cò che pare aggredire il nostro stile di vita, ma la paura è ingegnosa: opera confondendo i piani tra immigrati, rifugiati, nomadi, musulmani, terroristi, ma anche ‘greci’ che mettono a rischio la stabilità economica, ‘tedeschi’ che vogliono comandare, ‘asiatici’ che comprano tutto”, e così via. Il risultato è una società polarizzata, e la situazione attuale dell’Italia di questo periodo di vuoto governativo ne è un chiaro esempio. Con il sopravvento di una paura fuori controllo è a rischio la democrazia? Leggendo il libro di Giro la risposta sembra andare decisamente verso il sì. Per poi però virare alla ricerca di un antidoto: “quando avremo tutti meno paura delle differenze, sarò più facile ritrovarsi e convivere”, spiega l’autore, che nei suoi 59 anni di vita ha girato in lungo il largo il mondo, spesso per delicate missioni diplomatiche. La via d’uscita è “una nuova cultura umanistica”, che “accetta la sfida della contraddizione, della differenza e dell’ambiguità”, dove si è “meno schiacciati, meno addossati su ciò che accade, meno turbati dall’essenza e più interessati all’esistenza”, sulla scia del famoso Stay hungry, stay foolish, preso in prestito da Steve jobs, fondatore della Apple, da quanto aveva scritto Stewart Brand nel 1968.

Sono molti altri poi i temi in cui si districa virtuosamente “La globalizzazione difficile”, mai noioso nelle sue 154 pagine. Dallo scontro tra paura e cultura si passa poi al mondo giovanile, con un focus sui Millennials, dai quasi 20enni di oggi fino a coloro che hanno svoltato il nuovo secolo da adolescenti e oggi si trovano ad affrontare una società ben più complessa dei propri genitori, dove il rischio di essere Neet – Not in employment, education or training, ovvero fuori dal mondo del lavoro, della scuola o dei tirocini formativi – è elevato e tristemente “i giovani vanno bene soltanto come massa di manovra politico-militare o fattore di produzione di consumo”. Giovani che, paradossalmente, lavorano di più e fin da piccoli nei Paesi più poveri, perché obbligati dal basso reddito familiare ed esposti a qualsiasi forma di sfruttamento. Ma i tempi possono mutare in ogni senso, e quanto sta accadendo in Africa, per esempio, va ben al di là dei luoghi comuni: “sta avvenendo una rivoluzione antropologica”, riporta Giro, “a differenza degli adulti, i giovani del continente sono più indipendenti, intraprendenti più pronti all’avventura e – di conseguenza – più soli”.

Crisi delle relazioni internazionali, nuove guerre e “rifiuto generalizzato della politica” occupano successivi capitoli del libro, con diversi approfondimenti concreti dai quattro angoli del mondo, dove “passione” da una parte e “populismo” dall’altra lottano verso un futuro pieno di incognite. “La democrazia è malata?” si chiede l’autore in uno dei capitoli conclusivi. La risposta non è univoca ma è ben strutturata nel testo, di cui anticipiamo solo una parola cardine che viene ribadita: “convivere”, come “ritessere i fili del dialogo tra diversi e ritrovare le ragioni del vivere insieme” (tema caro anche a un altro noto membro di Sant’Egidio, l’ex ministro per la cooperazione internazionale e l’integrazione Andrea Riccardi). Il resto del contenuto della risposta si trova, ovviamente, tra le pagine di un libro consigliatissimo, oggi più che mai.

Foto credit: Wyron A/Unsplash

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