Non profit

Motori di cambiamento o progettifici?

di Bernardino Casadei

Non c’è ente d’erogazione, pubblico o privato, che non ambisca a porsi come motore di cambiamento sociale in grado di contribuire alla soluzione delle tante sfide che impediscono alla nostra società di esprimere tutte le sue potenzialità. Attraverso una meticolosa scelta dei progetti più interessanti, in quanto innovativi, sostenibili e replicabili, si spera di trovare una soluzione ai mali che ci circondano. Dobbiamo però ammettere che a volte si ha l’impressione che il frutto di tutto questo lavoro sia un grande progettificio incapace di conseguire tali obiettivi.

Sono innumerevoli gli studiosi e gli analisti che hanno per decenni indicato agli enti d’erogazione il finanziamento a progetti come la modalità più corretta per perseguire i propri fini statutari. In effetti il progetto permette di operare una valutazione ex ante, ex post ed in itinere. Il progetto consente poi di definire le risorse necessarie, così da poterle comparare con l’output che verrà generato e quindi di testare in modo rigoroso, anche attraverso l’implementazione del metodo contro fattuale che solo esso permette di utilizzare, l’impatto che è possibile conseguire. Il progetto crea infine le condizioni per la replicabilità dell’iniziativa finanziata e quindi, in caso di successo, della sua diffusione su una più ampia scala. Eppure, malgrado tutto ciò, il sentimento che tutte queste analisi rigorose e formalmente perfette non riescano a cogliere l’essenza del problema e che esse tentino un’impossibile implementazione nei rapporti sociali delle metodologie che hanno dimostrato la loro efficacia in campo medico e biologico, serpeggia inconfessato in un numero sempre maggiore di operatori del settore.

Per evitare di lasciare solo il mondo mentale e impedirgli, come scriveva Prévert, di mentire monumentalmente, lavorando in modo arbitrario per costruirsi un ennesimo auto-monumento, è indispensabile un serrato confronto con la realtà, la quale ci mostra come l’impatto di decenni di finanziamenti a progetto in ambito sociale si sia rivelato praticamente irrilevante. Malgrado i milioni investiti in progetti spesso estremamente interessanti e sofisticati e malgrado questi ultimi abbiano spesso conseguito i risultati che si prefiggevano di ottenere, dobbiamo riconoscere come essi abbiano finito per influire su una percentuale infinitesima della popolazione target, senza riuscire ad avere un impatto sufficientemente ampio per permettere di attribuire agli enti d’erogazione quel ruolo di motori del cambiamento sociale a cui ambiscono. La replicabilità e la diffusione su ampia scala delle iniziative in ambito sociale si è infatti rivelata molto più problematica di quanto previsto e lo stesso impatto sociale delle tante iniziative sostenute appare difficilmente definibile. Sembra che anche nel sociale si assista a quel fenomeno che molti hanno potuto verificare in tante iniziative formative per cui i veri beneficiari dei tanti corsi finanziati coi fondi europei erano i formatori e non i formati.

Davanti a queste evidenze, chi non vuole bendarsi gli occhi, può seguire tre strade:

1) concentrarsi sulle quantità delle risorse che sono state investite, dimostrandone la loro insufficienza e mostrando come, per potere avere successo, sarebbe stato necessario mobilitare energie molto superiori, data la complessità e l’interconnessione delle sfide con cui ci si deve confrontare;

2) puntare il dito sulla qualità dei progetti finanziati e sulla necessità di implementare con maggior rigore le attività di verifica e valutazione, denunciando come troppo spesso i progetti sostenuti non siano altro che tentativi di camuffare l’attività ordinaria degli enti finanziati;

3) domandandosi se non siano proprio l’approccio progettuale, per le rigidità che lo contraddistingue, ad essere poco adatto a qualsiasi tentativo di promuovere un rilevante cambiamento sociale.

Per quel che concerne il primo approccio, a parte il fatto che le risorse che a livello pubblico e privato sono state investite in progetti sociali sono in realtà ingenti, se dovessimo concludere che esse sono insufficienti, dato che ben difficilmente potranno essere aumentate in un momento di crisi della finanza pubblica, dovremmo rinunciare alla partita ed ammettere che la filantropia istituzionale deve abbandonare qualsiasi illusione ed ammettere che, nel migliore dei casi, essa non può che svolgere il ruolo di moderno elemosiniere, in grado di recare un importante e necessario sollievo ad soggetti in stato di bisogno, ma che certamente non può ambire a generare importanti e duraturi cambiamenti almeno per quel che riguarda la dimensione sociale della nostra esistenza.

Quanto al secondo approccio, se è certamente vero che è sempre possibile migliorare, l’evidenza empirica non sembra mostrare, malgrado tutti i progressi realizzati nella tecnica progettuale di questi decenni, che ciò abbia generato una crescita nell’impatto dell’attività filantropica.

L’ultimo approccio parte invece da alcune evidenze spesso ripetute, ma di cui si stenta pienamente comprenderne le conseguenze:

1) le vere risposte ai problemi sociali vengono di norma proprio da coloro che li vivono in prima persona, ma che ben raramente hanno il tempo e le capacità per elaborare soluzioni progettuali, le quali vengono perciò necessariamente sviluppate da altri;

2) ogni problema sociale è in sé unico ed irripetibile. Non è raro che le risposte più efficaci nascano in modo imprevisto ed imprevedibile dal confronto quotidiano con la concretezza della realtà, così che spesso le conseguenze più importanti del nostro agire sono proprio quelle che non erano state previste e che quindi difficilmente possono essere valutate con gli approcci rigorosi che si usano per i progetti;

3) in un momento di crisi dello stato sociale la prima delle priorità consiste nell’essere in grado di mobilitare per finalità d’utilità sociale le tante energie che, sebbene presenti e potenzialmente importanti, finiscono per rimanere inutilizzate, quando non si trasformano in comportamenti antisociali. Per catalizzarle non servono progetti astrattamente perfetti e calati dall’alto, ma piuttosto la capacità di coinvolgere partendo dalle loro esigenze più vere e profonde le singole persone e le realtà in cui operano.

Vi è chi mi ha obiettato che se ciò fosse vero sarebbe impossibile dar vita a politiche pubbliche e ciò è senz’altro vero se si pensa all’implementazione di strategie elaborate da qualche soggetto particolarmente illuminato, ma se si riscopre la classica definizione della politica, come scienza architettonica in grado di armonizzare in una visione comune le diverse esigenze di cui ognuno è portatore così che ciascuno possa contribuire secondo le sue possibilità e sensibilità, allora diventa, in modi quasi imprevedibili, possibile scoprire nuovi orizzonti, ridare speranza e quindi incidere effettivamente sulla nostra società.

Le esperienze di impatto collettivo che si stanno moltiplicando nel mondo mostrano come ciò non sia affatto un’utopia e la prima sperimentazione che la Fondazione Comasca sta promuovendo sembra indicare come ciò sia possibile anche nel nostro Paese.

Per chi fosse interessato a saperne di più se ne parlerà proprio domani nell’ambito dell’UMANA MENTE Cisco school a cui è possibile partecipare gratuitamente via internet utilizzando questo link.

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