Il tempo per pensare e per osservare non manca, fino a quando resto qui, accanto al letto 14 dell’Unità Spinale. I giornali sul letto, la televisione in sottofondo, il computer acceso per sfogliare il web. Ammetto di aver gioito in silenzio, ieri sera, senza crudeltà e senza rabbia, ma giusto con quel tanto di fiduciosa speranza in un cambiamento possibile, e quasi epocale, che non poteva non accompagnarsi alle immagini delle faticose quanto ineluttabili dimissioni di Silvio Berlusconi da presidente del Consiglio. A parte il giudizio su di Lui, di cui si è scritto e detto anche troppo, ho pensato subito al disfacimento di una innumerevole e costosa corte dei miracoli, governativa e paragovernativa, che, specialmente negli ultimi anni, cioè in questa disperante legislatura, ha dato prova talmente scarsa, in fatto di competenze e di attendibilità delle decisioni, da meritare un rapido silenzio, un definitivo oblio, senza ritorno.
Ecco perché stando qui, con le mie ossa in esposizione, adagiate su teche di resina, come reliquie di una fragilità umana della quale dovrò finalmente e stabilmente tener conto, non riesco ad appassionarmi al sangue, un po’ vigliacco e scontato, che si accompagna alle scene peraltro prevedibili e ovvie di giubilo e di scherno nei confronti di Silvio. Il mio pensiero corre all’improvviso e ormai quasi certo cambio di scena, come quando in teatro, tra un atto e l’altro, si spostano le quinte, si cambiano gli arredamenti, entrano sul palco nuovi protagonisti. Il volto di Monti è rasserenante. Dà la sensazione di avere già in mente non soltanto le prime mosse, ma anche i dettagli, le strategie, i collaboratori ai quali affidare, con metodo sperimentato in anni di lavoro in alta quota, le politiche immediate, le misure congiunturali, gli scenari a breve termine. La scelta dei ministri e dei sottosegretari, se corrisponderà al suo profilo, e se i partiti glielo consentiranno (ma in questo senso un ruolo decisivo lo sta giocando sicuramente il presidente Napolitano) ci porterà improvvisamente a fare i conti con persone competenti nei singoli settori, prevalentemente di estrazione universitaria, ma già fortemente connotati per una lunga consuetudine al confronto programmatico con pezzi della società civile ed economica del Paese.
Qui dal letto 14 avverto perciò un rischio tutt’altro che banale. Ossia temo che il mondo del sociale, non solo della disabilità che ben conosco, ma più in generale quella parte di società che ogni giorno vive su di sè e interpreta al tempo stesso il welfare, il volontariato, la cooperazione sociale, la sussidiarietà, la gestione dei servizi sul territorio, arrivi a questo appuntamento con la Storia in una situazione paradossale, di massima stanchezza, di logoramento, di sfiducia quasi rassegnata nel funzionamento delle istituzioni pubbliche, specialmente statali.
E’ invece adesso che dobbiamo, tutti quanti, trovare la forza e la lucidità delle proposte migliori. Non solo la difesa, ovvia, dell’esistente, quando riguarda i diritti essenziali delle persone più deboli (disabili, anziani, vecchi e nuovi poveri, giovani, disoccupati, donne, immigrati, e così via), ma anche l’attacco, ossia la proposta attiva di pezzetti di riforma possibile, di miglioramento della qualità della spesa, di individuazione dei percorsi virtuosi, di azzeramento di tavoli di discussione ridicoli (penso alla legge delega sulla riforma dell’assistenza).
Dobbiamo cioè sforzarci di evitare che l’agenda di un governo tecnico di emergenza sia dettata solo dagli euroburocrati che hanno messo in un angolo Berlusconi e soci. Il modo per farlo è inserirsi attivamente, robustamente, in modo visibile e forte, in questa fase di ripensamento del welfare, non delegando ai poteri forti, alla finanza, alle banche, alle grandi imprese, agli opinion makers che spesso sono totalmente sprovveduti o addirittura male informati rispetto ai temi che ci stanno a cuore.
Mi piace immaginare che ci sia un parallelo tra la mia convalescenza lenta ma costante e la cura ri-costituente di un governo che dovrà di volta in volta conquistare sui singoli provvedimenti il più vasto e inedito consenso nel Parlamento e nel Paese. In un certo senso a Roma può accadere adesso ciò che a Milano stiamo sperimentando, fra mille fatiche e difficoltà, e anche incomprensioni: un’alleanza creativa e operosa fra la parte più riformatrice della società e la borghesia laica e cattolica che sa dove mettere le mani e la testa. In questo modo, se avremo un po’ di fortuna, potremo perfino aver voglia di nuovo di far politica, nel senso più nobile e corretto del termine.
Una cosa è certa: in queste ore mi cresce la voglia di tornare a casa, di riprendere il cammino, per quel che poco che potrò fare, da giornalista e da cittadino. Speriamo.
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