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Che errore pensare che sia un sinonimo di “globalizzazione”. In realtà è il suo contrario. Globalizzazione ha la stessa radice di “inglobare”. Mondialità invece è consapevolezza dell’interdipendenza

di Maurizio Regosa

Per allargare lo sguardo sul mondo intero, ritrovando il senso di un comune destino, occorre ripartire dai luoghi vissuti, dalle comunità, dagli affetti e dalle radici anche culturali. Non aver paura del confronto. Non fuggirlo. Anzi: andargli incontro consapevolmente e con un ritrovato senso di equità, sapendo che un cambiamento è possibile solo dal basso, abbandonando i cliché e i luoghi comuni, ripensando anche le forme organizzative. Perché viviamo un presente frettoloso e caotico, in cui il fenomeno (la globalizzazione) è sovente confuso con la causa, la mondialità. Come spiega a Vita Bruno Amoroso, docente di Economia internazionale e preside della facoltà della Mondialità dell?Università del Bene comune, che aggiunge: alla globalizzazione sono state date molte risposte. Alcune elaborate con l?intenzione di escludere, altre con l?obiettivo opposto. Ripartire dalla mondialità, in un universo in cui gli squilibri continuano ad aumentare, in cui istituzioni in crisi non sanno che riproporre schemi del passato (spesso fondati su convergenze improprie o addirittura inesistenti), vuol dire interrogarsi e mettersi alla prova. Chiedersi cioè quali soluzioni siano realmente efficaci e desiderare di essere ?attori di cambiamento?, rivendicando un protagonismo nuovo simile a quello degli anni 70, che ha permesso alla società civile di ripensare, in termini non colonialistici, la cooperazione internazionale e di maturare progetti come il commercio equo e solidale e la finanza etica.

Vita: Forse sarà anche colpa della pubblicistica, ma nella consapevolezza comune ci sono parole usate come se avessero lo stesso significato: globalizzazione, universalizzazione, mondializzazione, internazionalizzazione. Ogni tanto compaiono termini diversi come ad esempio ?mondialità?. Sono davvero concetti equivalenti? E che cosa vuol dire mondialità?
Bruno Amoroso: È la percezione di ogni comunità e Stato che la propria esistenza è interdipendente con quella di altre comunità di altri Stati. Una consapevolezza che avanzò negli anni 70 e che poi è andata perdendosi. Tutti si riferiscono alla globalizzazione, un concetto onnicomprensivo che definisce se stesso e il suo contrario. Oggi tutto è globalizzazione. Addirittura è un concetto usato anche per definire i movimenti che la contrastano. Molto diversa la percezione che c?è una crescente interdipendenza a livello mondiale che i singoli Stati non riescono e non possono ignorare.

Vita: Si dice che a quella consapevolezza la politica non abbia dato risposte?
Amoroso: È un luogo comune. Sono state varie. Una è stata appunto la globalizzazione, che è la risposta dei sistemi industriali più forti, che decisero di affrontare la mondialità organizzandosi con una struttura di potere, la triade capitalistica (Usa, l?Europa più ricca e il Giappone). La loro premessa era chiara: «Dobbiamo mantenere il nostro sistema di vita che non è negoziabile, non c?è posto per tutti, non è possibile estendere il livello di vita di 700 milioni di persone a 7 miliardi. Quindi dobbiamo svilupparci in modo selettivo e qualitativo, bloccando la crescita economica altrui».

Vita: Cosa è successo, in concreto?
Amoroso: Che dagli anni 80 nessuno andò più in Africa, anche l?America Latina fu messa in condizione di crisi continua. Con gli anni 90 ci fu il tentativo di bloccare l?Asia con la crisi dei mercati, provocata per frenare la crescita economica delle tre tigri. Naturalmente da questa situazione sono nati molti problemi – politici, sociali, economici – ma è derivata anche la seconda risposta: i movimenti della società civile che cercano di mitigare i danni di questa crescita economica concentrata. La terza risposta è stata di quei Paesi che non hanno accettato la loro ?marginalità?. La Cina, l?India, alcune nazioni dell?America Latina, la stessa Africa che ora, grazie alle sinergie economiche con i cinesi, si sta rimettendo in cammino.

Vita: Quindi mondialità è il contrario di globalizzazione?
Amoroso: Globalizzare significa inglobare: assumere uno standard che ovviamente è il nostro. I Paesi che ne vogliono far parte devono adeguarsi. Il concetto di mondialità è opposto: apertura delle singole comunità e degli stati nazionali all?interdipendenza. Ogni comunità cerca di essere autosostenibile ma riconosce le interdipendenze, si apre alla possibilità di collaborazione in tutti i campi, compreso quello economico. Ma la diversità sta anche nell?origine: la globalizzazione è una risposta dall?alto e dei centri forti dell?economia; mondialità e mondializzazione sono risposte dal basso.

Vita: È per questo che le persone e comunità possono essere attori di cambiamento, come afferma il sottotitolo del suo ultimo libro?
Amoroso: Sì. Ma attenzione: persone, non individui. L?individuo è una creazione giuridica del Settecento europeo. La persona è l?essere incluso in una comunità, è un intreccio mai separato di rapporti. Viceversa la modernità europea la separa dal contesto, considera l?individuo come un essere solo, un personaggio tenuto in vita da leggi e regolamenti. Il problema è riprendere il percorso grazie al quale l?individuo ritrova i suoi legami con la famiglia?

Vita: E con la comunità?
Amoroso: Con comunità vogliamo indicare che il progetto deve prevedere la creazione di un insieme che è un insieme vero, fatto di rapporti veri, umani, anche affettivi. Qualunque sia il livello giuridico – regione, Stato, municipalità – non si devono considerare sudditi o cittadini, cioè entità giuridiche, ma persone che hanno dentro e intorno rapporti umani e valori che vanno rispettati e rafforzati.

Vita: Si fa un gran parlare di diritti?
Amoroso: I diritti non sono un fatto negativo, il problema è se la strategia dei diritti è quella giusta per raggiungere forme e livelli di coesione e convivenza. I diritti sono quelli che ogni comunità si crea attraverso un?evoluzione propria culturale e che poi si esprimono nelle forme giuridiche. È ingenuo pensare che esistono paradigmi predefiniti che naturalmente poi sono i nostri. Voler imporre a tutti certi diritti senza legarli alle forme comportamentali, è sbagliato: dà un segnale di passività anziché di attivazione della partecipazione. Senza l?elaborazione dal basso e l?elaborazione autonoma di ciascuno di questi problemi è difficile pensare che le soluzioni arrivino.

Vita: Baumann, in Voglia di comunità, fa anche una critica. Dice che la comunità può anche essere molto chiusa?
Amoroso: Questo vale per qualsiasi struttura. In Baumann c?è una sorta di resistenza culturale, data dal fatto che ritiene la comunità un concetto premoderno. Questo riflette un?idea della storia come processo lineare e ascendente. Ma stiamo tutti imparando che la storia è fatta di ricorsi e cicli. Ad esempio in una certa fase della modernizzazione occidentale, tutte le politiche scelsero la linea di considerare la famiglia una struttura arretrata, venne organizzato un sistema di educazione ? asili e scuole – con un chiaro obiettivo: prima togliamo i bambini dalla famiglia, prima modernizziamo la società. Dopo mezzo secolo, ci si rende conto di aver buttato bambino e acqua sporca. Si è capito che se la famiglia non cresce assieme al bambino non si va da nessuna parte, si crea un blocco tra generazioni. Adesso assistiamo perciò a ritorni che definiamo di conservazione che però nascono dalla superficialità con la quale si è voluto fare dei tagli al tessuto sociale delle comunità.

Vita: Qui torniamo al tema della partecipazione?
Amoroso: Fra gli attori del cambiamento ci sono pure i governi, ma l?anello mancante è che troppo spesso le persone e le comunità sono considerati quasi dei derivati. Al massimo si pone il problema della partecipazione, ma non nel senso della loro richiesta di partecipare, ma della nostra richiesta di coinvolgerli nelle nostre decisioni, far partecipare gli altri a quello che vogliamo noi. Dovrebbe essere esattamente l?opposto: le persone che apportano le loro idee e valori dentro un percorso di costruzione.

Vita: Da noi la comunità in qualche modo ha tenuto. Nonostante ciò non abbiamo saputo opporre capacità di proposizione dal basso.
Amoroso: Quando fu costituita, si decise di ampliare la comunità delle regioni in qualcosa che chiamiamo lo Stato italiano. Si pensò che era possibile un salto dalle regioni e dalla cultura locali a una struttura comunitaria più ampia. Ora dobbiamo riconoscere che il tentativo non è riuscito. Molti dei fenomeni anche patologici della politica e dell?economia nascono da questo fallimento. Anticipando quello che sta facendo ora l?Europa, l?Italia ha realizzato un progetto di comunità nazionale partendo da un quadro economico e non umano. Non per caso nasce il regionalismo. Nasce perché alla base c?è una forzatura sbagliata. Va ritrovato lo Stato nazionale ridando valore alle sue componenti e anche relativa autonomia.

Vita: Questo permetterebbe di abbordare la mondialità?
Amoroso: Anche in questo l?Italia può essere un laboratorio, ma dovrebbe riscoprire le proprie diversità e interdipendenze. Una delle poche cose che la modernità ci ha dato è proprio pensare un sistema nazionale dando molto valore alle diversità regionali mantenendo le forme nazionali. Del resto anche l?Europa è in crisi. A lungo si è detto: più Paesi entrano e meglio è perché una volta dentro si comportano come noi, il che non è vero. Quindi anche l?Europa dovrebbe ripensarsi in forma regionalizzata, con grandi mesoregioni – dei Paesi nordici, del Sud Europa, dell?Europa centrale e della vecchia Europa industriale – ciascuna organizzata in federazione omogenea, con forme proprie e tutte insieme associate in Europa.

Vita: Quindi per affrontare la mondialità serve anche una struttura politico organizzativa diversa…
Amoroso: Sì, ma non può essere imposta. Si deve ripartire dal basso, riconoscere le diversità e affrontare originalmente il problema del vivere insieme. Pensare di risolvere coi diritti o le leggi o con un organismo internazionale è illusorio. Del resto i precedenti ci sono ?

Vita: In che senso?
Amoroso: I Paesi nordici hanno già la Comunità dei Paesi nordici, con libera mobilità e circolazione anche in termini di mercato del lavoro, con un parlamento. Un?esperienza efficiente e innovativa fatta da Paesi che sono stati capaci di ristrutturarsi. L?interrogativo è: perché i Paesi dell?Europa del Sud non hanno fatto altrettanto? Che senso ha pretendere una politica comune su agricoltura, cultura e istruzione? Perché piuttosto non riconoscere le diversità?

Vita: Fino a che punto queste culture ?originarie? sono ancora vitali?
Amoroso: Questa è l?osservazione più dolente. Il problema è se è possibile recuperare. Come per l?ambiente: a lungo ci siamo detti: possiamo sporcarlo o distruggerlo, quando saremo più bravi lo puliremo. Ma possono esserci punti di non ritorno. Questo discorso potrebbe valere per i sistemi sociali, umani.

Vita: Il terzo settore italiano può spingere verso la mondialità?
Amoroso: Ha un grande potenziale. Gli unici fatti importanti nell?economia dagli anni 70 è questo mondo. Aver ripensato la cooperazione internazionale, aver maturato un?idea diversa del commercio e della finanza sono fattori cambiamento. Ma il terzo settore deve essere consapevole, e lo è, che si trova a un bivio. O viene riassorbito nelle strutture che prima criticava o fa un nuovo salto di qualità.

Bruno Amoroso è professore di Economia internazionale all?università di Roskilde, presidente del Centro studi Federico Caffè e preside della facoltà di Mondialità dell?Università del Bene comune. La sua ultima pubblicazione, firmata con Sergio Gomez y Paloma, si intitola Persone e comunità. Gli attori del cambiamento, uscita quest?anno presso Dedalo (Bari)


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