In questi tempi di crisi globale dei mercati, ci volevano i mondiali di calcio per leggere sulla stampa nostrana qualcosa sull’Africa. Un evento che potrebbe rappresentare l’occasione giusta per avviare l’agognato riscatto delle popolazioni “afro”. Anche se poi tutti sanno che il Paese nel quale si svolge quest’ambita competizione, il Sudafrica, rappresenta un’eccezione rispetto al resto delle nazioni africane. Stiamo parlando di quella che fino a pochi anni fa era la patria dell’apartheid, estremo lembo dell’Africa Australe, dove le opportunità per praticare lo sport a livello agonistico sono rivolte soprattutto ai ceti benestanti, mentre le classi sociali meno abbienti, che peraltro costituiscono la maggioranza della popolazione, vivono in condizioni di grande emarginazione e indigenza.
E dire che il Sudafrica avrebbe le carte in regola per esprimere livelli di benessere pari, se non addirittura superiori, agli standard occidentali: basta consultare un manuale aggiornato di geografia economica per rendersene conto. Sta di fatto che il “rinascimento africano”, tanto declamato sia dal “Padre della Patria”, Nelson Mandela, come anche dal suo successore, l’ex presidente, Thabo Mbeki, sembra inesorabilmente sfumare. Per carità, è già stato un miracolo che sia stata scongiurata la guerra civile nel momento in cui avveniva il tracollo del regime segregazionista, grazie soprattutto alla capacità d’innescare quei meccanismi dialogici che solo la “Commissione per la Verità e la Riconciliazione”, voluta da Mandela e presieduta dal vescovo anglicano e premio Nobel per la Pace, Desmond Tutu, poteva sortire. Quei cinque volumi di rapporto, costati due anni e mezzo d’indagini, oltre a ventimila testimonianze e centinaia e centinaia di audizioni servirono almeno, sul piano umano, a lenire le ferite inferte dall’odio razziale.
Oggi, comunque, in Sudafrica, nonostante la propaganda dei mondiali, il cammino per l’affermazione del “Bene Comune” è ancora tutto in salita. Basta leggere il recente rapporto pubblicato da Amnesty International, intitolato “The State of the World’s Human Rights”, per rendersi conto delle evidentissime debolezze del sistema sudafricano .“Corruzione e nepotismo“, stigmatizza Amnesty, “impediscono alla popolazione di aver accesso ai servizi di base e agli alloggi e portano al collasso le amministrazioni locali amplificando le proteste delle comunità colpite. Povertà, crescenti tassi di disoccupazione e di criminalità, così come la crisi nella sanità pubblica, sono sfide importanti per il nuovo governo”. La posta in gioco è alta se si considera che il Sudafrica è l’unico Paese del continente africano a sedere attorno al tavolo del G20 e che comunque rimane, sul piano continentale, la vera potenza di riferimento politica ed economica. Detto questo, sarebbe auspicabile che i mondiali offrissero l’occasione per portare alla ribalta non solo le numerose e meritorie iniziative di sensibilizzazione messe a punto da autorevoli organizzazioni internazionali, su temi come l’accesso all’acqua, la prevenzione medico-sanitaria e il diritto all’educazione delle popolazioni dell’Africa, a partire dai bambini. Ciò che conta, innanzitutto, a parte la tradizionale raccolta fondi, è il riconoscimento della dignità dell’intero continente.
Una galassia di popoli, anni luce distante dall’immaginario occidentale, col loro straordinario patrimonio di valori ancestrali, che hanno un’incontenibile fame e sete di giustizia. Ecco perché l’atteggiamento che dovremmo coltivare, anche qui da noi in Italia, dove l’austerità s’impone per necessità, dovrebbe ispirarsi allo stile delle Chiese Cristiane sudafricane che più di altre si stanno impegnando nell’affermare la “solidarietà critica”. Un diritto di cittadinanza, in difesa dei valori umani e cristiani, contro ogni forma di paternalismo, che pone la persona umana come soggetto critico dello sviluppo e non recipiente dell’ altrui beneficenza. Nella consapevolezza che tutti devono “educere”, tirar fuori, il meglio di sé stessi e degli altri.
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