Mondo
Mohammed, 3 anni: così vive un bimbo Rohingya
Attualmente a Shamlapur ci sono 13.000 persone, molte delle quali vengono alla Aid Station per ricevere assistenza medica e cure gratuite, per essere monitorate durante la convalescenza o per usare i nostri servizi igienici e ricevere acqua potabile. La testimonianza della fondatrice del Moas
Mohammed ha tre anni e fa parte della comunità apolide dei Rohingya considerate la minoranza pù perseguitata al mondo. Il team MOAS lo ha incontrato nella Aid Station di Shamlapur(Bangladesh) dove migliaia di Rohingya hanno trovato riparo in seguito alla nuova ondata di violenza scoppiata nell’agosto 2017. Attualmente a Shamlapur ci sono 13.000 persone, molte delle quali vengono alla Aid Station per ricevere assistenza medica e cure gratuite, per essere monitorate durante la convalescenza o per usare i nostri servizi igienici e ricevere acqua potabile.
Il bambino è arrivato con la famiglia alla Aid Station di Shamlapur e il nostro staff medico gli ha offerto una nuova t-shirt al posto della sua tutta logora, ma ovviamente Mohammed non l’ha accettata perché non aveva il suo giocatore preferito, la sua ispirazione e guida. Mentre la indossa, ha gli occhi pieni di speranza e orgoglio. Come ogni bambino della sua età, era certo che il suo idolo lo avrebbe aiutato a raggiungere il suo sogno di diventare un famoso giocatore di calcio.
Mi chiedo se i sogni si avverino nei campi profughi o negli insediamenti informali in cui le persone vivono in condizioni precarie e disastrose. Cosa ne sarà di questo piccolo sognatore? Riceverà istruzione e assistenza sanitaria? Verrà seguito da qualcuno che lo aiuterà a coltivare talento e passione?
Immagina di essere straniero in tutti i luoghi della terra. Sei nato in un Paese che ti ha sempre discriminato, non esisti nemmeno come cittadino, i tuoi movimenti sono monitorati, l’accesso a istruzione e assistenza sanitaria è enormemente limitato. Un giorno, degli uomini armati radono al suolo il villaggio dove vivi, massacrano i membri della tua famiglia, stuprano donne e ragazze davanti ai tuoi occhi. Coi sopravvissuti inizi un pericoloso viaggio per metterti al sicuro in un paese che ti ospiti dove ti senti sicuro, ma mai a casa. Come farai a sviluppare il senso di appartenenza a una comunità?
Mi chiedo quanto siano resistenti i sogni, quanto salde siano le loro radici per sopravvivere alle battaglie quotidiane. Quand’è che la speranza diventa disperazione e la disperazione diventa violenza? E se la disperazione diventa violenza, come possiamo prevenirla?
A metà ottobre 2018, 703.000 bambini avevano bisogno di assistenza umanitaria e il 55% dei rifugiati erano proprio bambini. Tuttavia, è difficile dar loro adeguato supporto dal momento che c’è un disperato bisogno di fondi. Stando all’ultimo report ISCG, ad oggi è stato raccolto solo il 45% del budget richiesto dal Joint Response Plan e alcuni settori sono drammaticamente a corto di fondi.
Due dei settori meno finanziati sono sanità (30%) e istruzione (29%). Ciò significa che i bambini Rohingya e bengalesi potrebbero non avere adeguato accesso al sistema sanitario e scolastico. Sono preoccupata per entrambe le comunità, soprattutto per i bambini Rohingya che rischiano di passare tutta la loro vita con la sensazione di non appartenere a nessun luogo. La mia più grande paura è che la loro disperazione diventi vulnerabilità, autolesionismo o radicalizzazione. La vulnerabilità infatti li renderebbe facili prede dei trafficanti di esseri umani, l’autolesionismo li porterebbe a farsi del mare o tentare il suicidio e la radicalizzazione li spingerebbe a ferire persone innocenti.
Se accadrà qualcosa di simile, non sarà certo una sorpresa perché non abbiamo fatto abbastanza per prevenire il dilagare della violenza. Se passi tutta la vita fra marginalizzazione, privazioni e stenti, è facile che tu finisca sfruttato da criminali senza scrupoli.
Viviamo in un mondo in cui una persona ogni due secondi diventa sfollata. A livello globale ci sono oltre 25 milioni di rifugiati e metà di loro sono bambini vulnerabili la cui vita, sicurezza ed evoluzione personale sono a rischio. Non possiamo semplicemente ignorare il destino di queste persone e far finta che non esistano. Non sparirebbero comunque e la situazione non migliorerebbe in alcun modo. Il solo modo per supportare i bambini e farli diventare adulti responsabili consiste in istruzione e amore. Gli esseri umani necessitano di cura fisica ed emotiva per sviluppare a pieno le proprie capacità e talento. Ma l’attuale approccio alla migrazione sta per lo più criminalizzando chi fugge in cerca di sicurezza e di una vita migliore. Così, la sola risposta alle attuali crisi migratorie consiste nel compiere una scelta di umanità aprendo vie sicure e legali per sradicare le reti criminali e il loro business in crescita. Inoltre, relocation e resettlement aiuterebbero a gestire i flussi migratori e a dare una vita decente alle milioni di persone in movimento. Due anni fa, MOAS ha lanciato una campagna per aprire vie legali e sicure e abbiamo sempre incoraggiato l’uso di mezzi legali per salvaguardare i diritti e la dignità delle persone vulnerabili.
Non so se i sogni si avverino nei campi profughi, ma sono certa che siano i sogni a tenere in vita le persone a prescindere da dove vivano.
*fondatrice del Moas
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.