Non profit

Modello Milano addio, la cacciata dei rom dalla strada dell’Expo

Alla vigilia della demolizione dell'insediamento

di Daniele Biella

Nell’insediamento presto arriveranno le ruspe. «Lo prevede il piano di viabilità legato all’esposizione universale», ripetono i 600 abitanti. Dove andranno? «E chi lo sa?» Al campo rom di via Triboniano, alle spalle del Cimitero Maggiore di Milano, ci entri come se fossi nel tuo quartiere. Al tuo passaggio, molti, soprattutto gli uomini, ti salutano, anche se è la prima volta che ti vedono. I 600 rom dell’insediamento regolare che più di tutti, nel bene e nel male, è finito sotto i riflettori di stampa e politica, sono abituati a vedere passare nelle loro “vie” (pochi metri di selciato che separano tra loro le indegne ma pulite baracche) i gagé, i non rom, nella lingua romanés: tra loro, italiani solidali che hanno conosciuto e preso a cuore le singole famiglie, operatori della Fondazione Casa della Carità a cui il Comune ha dato le chiavi della gestione dei propri rapporti con gli abitanti, fino a poliziotti in borghese, che vigilano quotidianamente su cosa entra ed esce dal campo. È un pout pourri di storie, vite difficili e umanità senza veli quello che vedi passando un afoso pomeriggio di luglio tra gli abitanti, soprattutto rom romeni provenienti da Craiova e dintorni, più qualche nucleo bosniaco in disparte: i due gruppi non si piacciono.
I bambini – tanti perché si viaggia sui tre-quattro per famiglia – ti cercano con lo sguardo e i sorrisi, ti fanno provare le loro bici e ti mostrano evoluzioni nelle loro piccole piscine gonfiabili messe in condivisione tra più “abitazioni”. «Com’è andata quest’anno a scuola?». «Sono stato promosso, non vedo l’ora che ricominci», rispondono quasi tutti in un ottimo italiano, di sicuro migliore di quello dei genitori. Una quarantina di loro è appena tornata da una settimana di vacanza sul litorale toscano, accompagnati dal personale della Casa della Carità: per alcuni era la prima volta al mare. Christian, invece, si dice contento perché un compagno di classe italiano l’ha invitato a giocare a casa sua. Ma chissà se lui e gli altri piccoli rom del campo li rivedranno, i compagni, a settembre: su Triboniano incombe un ordine di sgombero comunale, operativo da inizio luglio. «Prima o poi arriveranno le ruspe. Non so dove andremo, dopo», ti spiazza lo stesso Christian, 10 anni e un paio di occhi troppo rassegnati per la sua età. «Perché vi mandano via?». «Non lo so», risponde. Sono gli adulti al corrente delle motivazioni: «Arriva l’Expo 2015, da qui passerà una strada importante», spiega la maggior parte di loro. E pensare che il campo in questione era nato a inizio 2007 come modello da replicare poi in altre città: un Patto di legalità sanciva il “contratto” per la permanenza nelle baracche, sotto la supervisione degli operatori della Fondazione di don Colmegna.
Meno di quattro anni dopo, a maggio 2010, tutto è sfumato quando la Casa della Carità ha lasciato la sua postazione. «La sensazione è che nessuno ci aiuta davvero a trovare casa e lavoro», lamenta Constantin, mentre chiacchiera attorno a un tavolo di plastica con alcuni amici. C’è chi almeno un impiego in proprio l’ha trovato: «Con i miei due fratelli ho avviato un’azienda di trasporto per conto terzi», racconta il quasi 40enne Radu, «500 euro al mese con le quali sfamo me, mia moglie e i quattro figli». A lui, come a tutti gli altri, rimane comunque il problema della casa: «Chissà dove andremo, per ora non abbiamo trovato nulla», aggiunge. Il muro tanto invisibile quanto insormontabile è proprio questo: il vivere nell’insediamento più noto d’Italia, che nelle case italiane e su molti media viene spesso equiparato a malcostume e delinquenza.
I rom del campo non sono tutti santi e non lo nascondono: «Ho fatto un piccolo furto in un market tempo fa, mi avevano condannato a un anno e tre mesi. Ma allora eravamo ancora più disperati di oggi, chi non l’avrebbe fatto?», si chiede Alina. La stessa donna, 30 anni e tre figli, gira le vie di Milano con il biglietto da visita per trovare lavoro, «ma è inutile, c’è la crisi per gli italiani, figuriamoci per noi». «Perché non va lui a cercarsi un impiego?», chiediamo ad Alina, moglie tuttofare (la “casa”, roulotte più veranda in legno, è pulitissima). «Ha perso l’ultimo breve lavoro temporaneo poco fa. È scoraggiato». Scoramento e quiete surreale (in attesa della “tempesta”, lo sgombero) sono la fotografia più azzeccata di quello che si respira oggi nel più grande campo rom di Milano. Al momento dei saluti, ci si imbatte in Sandro, italiano, che consegna un alimentatore a una madre rom: «Vengo a titolo personale per aiutarli», rivela. Non è l’unico: a sentire gli abitanti del campo, quasi ogni famiglia ha il proprio buon samaritano che appare di tanto in tanto. «Guarda le case pulite, i panni lavati e stesi, l’assenza di odori sgradevoli: è bastato dare un minimo di spazio abitativo ai rom per capire che i fetidi campi abusivi erano solo una conseguenza del disagio», argomenta Sandro, «peccato che presto arriverà lo sgombero, e a meno di miracoli dell’ultima ora, i piccoli passi positivi di questi anni verranno cancellati: rimarrà il ricordo di un’occasione di integrazione persa. Per tutti, rom e italiani».

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