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Moas: ecco perché le migrazioni non sono una questione di prossimità

«Continuiamo a trattare il fenomeno migratorio con un approccio a compartimenti stagni», spiega Regina Catrambone, fondatrice dell’organizzazione che dopo essere stata impegnata nel Mediterraneo, è oggi attiva in Bangladesh per assistere i profughi Rohingya in fuga dal Myanmar. «È una crisi umanitaria enorme. Ma solo perché è lontana fisicamente non significa che non ci riguarderà in futuro. Le reti dei trafficanti arrivano ovunque»

di Ottavia Spaggiari

Sono stati mesi di cambiamenti gli ultimi del 2017 per il Moas, che a settembre, dopo la crescente tensione nel Mediterraneo ha deciso di sospendere le operazioni di ricerca e soccorso, lanciando però una nuova missione in Myanmar per assistere i profughi Rohingya in una delle più gravi crisi umanitarie contemporanee. La scorsa settimana l’organizzazione ha poi inaugurato la prima missione aerea in collaborazione con Unhcr per permettere ad un gruppo di rifugiati di lasciare la Libia.

Come è nata la collaborazione con Unhcr?

L’Unhcr ci ha chiesto di dare una mano per l’evacuazione di 74 rifugiati, 51 dei quali sono bambini che sono stati evacuati a Niamey dalla Libia. Per noi si tratta di un progetto importante perché si tratta di lavorare a favore della creazione di nuove vie sicure e legali in alternativa all’ecatombe del Mediterraneo. Si spera di riuscire ad organizzare altri voli come questo. Mi auguro che questo non sia l’unico insomma. Oltre alla collaborazione con Unhcr ne abbiamo avviato un’altra con Comunità San’Egidio per la distribuzione di aiuti nelle aid station in Bangladesh.

In che condizioni erano le persone che sono state trasferite in Niger?

Si tratta di persone fortemente provate, identificate da Unhcr come soggetti particolarmente vulnerabili e per questo idonei all’evacuazione. Sul volo era presente un presidio del Moas, tra cui il co-fondatore, mio marito, Christopher Catrambone, un paramedico e un’infermiera, proprio per garantire l’assistenza per ogni evenienza. Sono persone reduci da esperienze durissime, hanno vissuto l’inferno, come tutte le persone che con Moas abbiamo soccorso in mare e che soccorriamo in Bangladesh. Negli occhi hanno tutti la stessa speranza di riuscire a trovare un futuro migliore.

In Bangladesh siete attivi ormai da due mesi per assistere la popolazione Rohingya in fuga dal Myanmar. Una crisi umanitaria su cui anche il Papa ha contribuito a focalizzare l’attenzione con il viaggio di inizio dicembre. Cos’è cambiato dalla visita del Pontefice?

La visita del Papa è stata fondamentale, da credente ho assistito alla messa che ha celebrato e l’ho visto abbracciare queste persone come un padre farebbe coi suoi figli. Adesso però dobbiamo continuare a tenere alta l’attenzione sul genocidio che si sta consumando in Myanmar e di cui i media non parlano abbastanza. Non si ha idea della gravità della situazione. Dalla fine di agosto sono 647mila i rifugiati fuggiti in Bangladesh dal Myanmar. È un numero enorme se si pensa che gli arrivi si sono concentrati in pochi mesi. Le persone arrivate in Europa negli ultimi due anni sono 525mila. La pressione di tutti questi arrivi su un Paese come il Bangladesh, già in forte difficoltà, è enorme.

Che tipo di sostegno state offrendo in questo momento?

Nelle nostre due aid station assistiamo circa 600 persone al giorno. Abbiamo fatto un calcolo e dall’inizio della missione, abbiamo visitato circa 20mila pazienti. L’ospedale di Cox Bazaar ha 250 letti e in media ci sono 700 persone in attesa. Il governo bengalese sta facendo fronte all’emergenza ma non può essere lasciato solo, anche perché bisogna ricordare che il Bangladesh è al terzo posto dei Paesi di provenienza dei migranti che arrivano in Europa.

In che condizioni sono le persone che assistite?

Gravissime. Il 60% dei profughi Rohingya sono bambini, ci sono moltissime donne e persone anziane. Molti hanno subito violenze tremende. Una nonna ha portato alla nostra clinica un bimbo appena nato e pochi giorni dopo è arrivata la sua mamma, una ragazza di 25 anni che ha partorito nel campo profughi di Uchiprang. Era fuggita dal Myanmar dopo che avevano cercato di bruciarla viva. Aveva ustioni terribili su tutto il corpo. Molte persone non hanno mai avuto accesso all’acqua pulita. I bambini non riescono neanche a berla perché non sono abituati e non riconoscono il sapore. È una situazione terribile, solo che sembra lontana e per questo pensiamo non ci riguardi. Continuiamo a trattare il fenomeno migratorio con un approccio a compartimenti stagni, come se fosse una questione di prossimità. Non è così. Solo perché queste persone sono lontane fisicamente non significa che non ci riguarderà in prima persona in futuro. Le reti dei trafficanti arrivano ovunque.

Foto: Moas

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