Welfare
Misure alternative, porte aperte ai clandestini
Il valore rieducativo della pena «non può essere a priori escluso nei confronti degli stranieri privi di permesso di soggiorno»
Il valore rieducativo della pena «non può essere a priori escluso nei confronti degli stranieri privi di permesso di soggiorno»: è il principio seguito dalle sezioni unite penali della Suprema Corte di Cassazione che, con una sentenza di portata storica, il 28 marzo scorso hanno stabilito che anche i clandestini detenuti nelle carceri italiane possono godere delle misure alternative al carcere, come ad esempio l?affidamento ai servizi sociali. Le sezioni unite hanno così invertito un indirizzo giurisprudenziale molto più rigido, secondo cui la condizione di irregolare inficiava di per sé la possibilità di accedere a misure alternative al carcere.
Il procuratore generale della Corte di Appello di Sassari , che aveva presentato ricorso nel caso trattato dalle sezioni unite, aveva infatti sostenuto che «le misure alternative alla detenzione sono inapplicabili allo straniero extracomunitario che si trovi in condizioni di clandestinità, data la radicale incompatibilità delle modalità di dette misure con le norme che regolano l?ingresso, il soggiorno e l?allontanamento dal territorio dello Stato delle persone appartenenti a paesi estranei all?Unione europea». Di tutt?altro avviso la Suprema Corte che, probabilmente (le motivazioni non sono ancora state pubblicate), ha fatto suoi gli orientamenti più permissivi, tenendo conto che la Bossi-Fini non prevede alcun divieto di applicazione delle misure alternative ai condannati stranieri entrati illegalmente in Italia, e che la Costituzione italiana mette in luce il valore rieducativo della pena. Certamente questa decisione andrà a interessare una larga parte dei circa 60mila detenuti nelle carceri italiane. Il 30% di essi è infatti rappresentato da immigrati che nella maggior parte dei casi non hanno residenza, familiari o risorse in Italia. «Sulla scia di questo provvedimento saranno circa 15mila i detenuti stranieri che potranno godere delle misure alternative», conferma Giancarlo Perego, responsabile dell?area nazionale della Caritas. La sentenza della Cassazione, che segue una analoga dello scorso giugno che ha interessato un detenuto magrebino, non ha però valore di legge. «Potrà comunque costituire un efficacissimo precedente nei ricorsi contro i tribunali di sorveglianza che impediscono le misure alternative ai detenuti per il solo fatto di essere clandestini», osserva Perego. Una buona notizia, quindi. Ma l?ipotesi che resti sulla carta è un pericolo reale. «Per permettere al sistema degli uffici di esecuzione penale esterna di gestire una mole così importante di casi, è necessario incrementare le figure trattamentali», osserva Perego. Un appello rivolto al ministero («oggi a fronte di 42mila agenti, contiamo a mala pena mille educatori), ma anche al volontariato («con questo trend giurisprudenziale, presto 7mila volontari saranno insufficienti).
Il caso
Nel febbraio 2005, il tribunale di sorveglianza di Sassari ha accolto la richiesta di un detenuto marocchino privo di permesso di soggiorno, Alloussi Rabie, per essere affidato a una coop di servizi sociali.
Il ricorso
Il procuratore generale della Corte di Appello di Sassari ha fatto ricorso contro quella decisione, sostenendo che le misure alternative sono inapplicabili ai clandestini.
La sentenza definitiva
Le sezioni unite della Cassazione hanno respinto il ricorso, confermando l?ordinanza del tribunale.
www.cortedicassazione.it
www.caritasitaliana.it
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