Mondo

Missioni militari e desideri di pace. Iraq, il peacekeeping a chi lo sa fare

La forza armata può essere usata a fin di bene? La storia insegna che in taluni casi è successo. Ma non così a Bagdad. Dove la retorica non cancella gli errori.

di Daniele Scaglione

“Mia madre mi ha instillato l?orgoglio di appartenere a una nazione che, pur non essendo minacciata dalla guerra, ha sacrificato i suoi giovani per combattere l?oscuro potere dei nazisti. Nei miei genitori ho potuto apprezzare il coraggio che li ha portati a guardare oltre i loro interessi personali e offrire le loro vite per sconfiggere chi stava minacciando la pace e la sicurezza in buona parte del mondo. Ho cercato di seguire il loro esempio”. Sono parole del generale canadese Romeo Dallaire che, a capo di una missione di Caschi blu, nel 1994 tentò invano di opporsi al genocidio in Ruanda. Sono parole che testimoniano un idealismo condiviso da molti tra i militari impegnati in missioni lanciate in risposta a gravi crisi internazionali. Se la maggior parte dei governi del mondo praticasse concrete politiche in favore dei diritti umani, non vi sarebbero emergenze da gestire, ma così non è, e l?uso della forza armata ?a fin di bene? rimane un tema di grande attualità. Nel nostro Paese da un lato c?è chi guarda i nostri militari impegnati all?estero con diffidenza, dall?altro chi li osanna senza discernimento, ponendo sullo stesso piano operazioni vergognose come quella in Somalia e le ben più dignitose compiute nella ex Jugoslavia. Il massacro di Nassiriya ha peggiorato questa situazione e la retorica soffocante che ne è scaturita impedisce una seria analisi degli errori commessi e l?urgente riflessione sul ?cosa fare adesso?. Quest?assurda e inutile guerra è stata lanciata e purtroppo non si può tornare indietro nel tempo. Ma piuttosto che rimanere prigionieri nello scontro tra i pro-continuazione e i pro-interruzione della missione italiana, si deve pretendere che il nostro governo renda conto di ciò che fanno i nostri militari. Dovremmo essere informati su se e come i nostri soldati rispettano le regole di guerra così come sono state stabilite nelle convenzioni di Ginevra, dovremmo capire se sono o meno in grado di sopperire allo scandaloso deficit di pianificazione degli anglo-americani sulla gestione del Paese dopo la fuga di Saddam Hussein. Dovremmo chiedere perché a Nassiriya, contrariamente a quanto previsto dalle norme di guerra, i carabinieri si siano stabiliti nel cuore della città, mettendo così a repentaglio la sicurezza di molti cittadini. L?attentato è responsabilità unica dei criminali che l?hanno pianificato e attuato, ma le sue conseguenze su civili iracheni, come i molti bambini uccisi o feriti gravemente, sono anche dovute alla sconsiderata collocazione dei nostri militari. Il nostro governo deve smetterla di ripetere come un disco incantato che non si lascerà intimidire dal terrorismo e dare risposte precise su questioni come queste, e le ong che si occupano di emergenza dovrebbero incalzarlo con urgenza, per quanto riguarda la situazione irachena e perché in futuro il nostro Paese potrà scegliere ancora di affrontare con la forza militare situazioni di crisi. Occorre rilanciare con convinzione il ruolo dell?Onu, chiedendo senza ambiguità di investire di più e meglio nei Caschi blu. Oggi le operazioni di peacekeeping sono appannaggio soprattutto dei Paesi meno sviluppati, che utilizzano i compensi riconosciuti dal palazzo di Vetro come sostegno alle proprie deboli finanze: un mercato troppo misero per i ricchi Paesi occidentali che, nonostante le belle frasi di circostanza in favore delle Nazioni Unite, quando devono mettere mano al portafoglio ritengono più redditizio agire per conto proprio o con pochi selezionati amici.


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