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Missioni, c’è il decreto ma non le deleghe al ministro Riccardi

Nino Sergi (Intersos): «occorre che il Premier le definisca al più presto»

di Redazione

È stato discusso dalle Commissioni riunite Esteri e Difesa della Camera il testo del provvedimento sulle missioni internazionali. L’Aula lo voterà il 30 gennaio per poi passarlo all’approvazione del Senato.

Lo ha commentato Nino Sergi, storico presidente dell’organizzazione umanitaria Intersos spiegando che «il testo del decreto, gli interventi dei Deputati e gli emendamenti presentati, permettono di mettere in evidenza alcune problematicità che a nostro avviso dovrebbero essere maggiormente approfondite, ora o nei prossimi mesi».

Secondo Sergi, «a parte la positiva durata non più semestrale ma annuale, la riduzione del personale militare in alcune missioni, il maggiore impegno nell’area balcanica, il lieve aumento dei fondi per le attività di cooperazione (un minimo 5,57%), il decreto esprime un’automatica continuità con i precedenti, come se mancassero valutazioni, analisi e strategie sulle singole missioni e quindi sul significato della presenza (italiana e internazionale) nei diversi contesti e nelle mutate condizioni». È stata infatti cancellata la missione nella Repubblica democratica del Congo «che rimane uno dei principali paesi di crisi e con crescente instabilità» sottolinea il presidente. Che aggiunge «mentre sulla principale missione, quella in Afghanistan, non si intravvede alcuna riflessione critica e alcun conseguente cambio di presenza e di strategia a fronte di un bilancio “non sempre linearmente positivo”, come lo stesso relatore on. Frattini l’ha diplomaticamente definito».

L’introduzione di disposizioni urgenti per l’amministrazione della Difesa rappresenta una novità rispetto ai decreti precedenti. «Si tratta di un’innovazione che inquina la linearità e la già non eccessiva trasparenza del decreto», sottolinea Sergi, «che ciò avvenga da parte di un governo che pretende di comunicare correttezza e limpidezza appare come una pesante incoerenza. Si tratta di norme estranee al tema delle missioni internazionali e che, data la loro rilevanza, dovrebbero essere approfondite e trattate in un diverso dispositivo di legge».

La “ristrutturazione e l’efficientamento degli arsenali”, le “vacanze organiche”, i “trasferimenti o transiti di ruolo”, “l’Agenzia Industrie Difesa”, i “contributi pluriennali all’Amministrazione della Difesa”, tanto per citare alcuni commi, hanno poco a che fare con il finanziamento delle missioni internazionali. «Le stesse Commissioni riunite hanno sentito il dovere di approvare un emendamento che obbliga al previo parere parlamentare vincolante i programmi di investimento con finanziamenti pluriennali», chiarisce il presidente, «il Governo potrebbe responsabilmente presentare un emendamento di scorporo dal decreto di queste “disposizioni urgenti” inserendole in altro provvedimento legislativo.

Anche sull’impiego del corpo militare della Croce Rossa Italiana, introdotto per la prima volta nel decreto, «andrebbe fatto un serio ragionamento», secondo Sergi, «a partire dal D.Lgs. di riorganizzazione della CRI già all’esame del Parlamento, per allineare l’Italia ai paesi più avanzati in relazione alla necessaria indipendenza di tale istituzione e alla piena applicazione dei principi umanitari, a cui l’Italia ha peraltro aderito».

«I primi emendamenti al decreto hanno provveduto a meglio regolare la potenziale conflittualità tra i due ministri degli Esteri e della Cooperazione e Integrazione», conclude Sergi, «occorre in ogni caso che, senza ulteriori ritardi, il Presidente del Consiglio definisca le deleghe al Ministro in materia di cooperazione e di integrazione. La positiva innovazione introdotta con il Ministro per la cooperazione e l’integrazione va ora riempita di contenuti reali ed efficaci, anche apportando modifiche alle leggi esistenti. Considerarle immodificabili non aiuta i necessari processi di cambiamento che la realtà internazionale e quella interna dell’immigrazione richiedono».

Non spetta al decreto entrare nel merito della missione militare in Afghanistan. «Qualche puntualizzazione va però fatta» secondo il presidente dell’organizazione. «È evidente il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione afgana» spiega, «nella capitale in particolare. Anche se dilagano corruzione e gravi criticità nella governance e nella gestione della cosa pubblica, l’aiuto internazionale, pur non rispondendo a molte delle aspettative afgane, ha comunque funzionato». La fase attuale rimane alquanto incerta e la presenza internazionale non ha ancora definito una chiara e precisa strategia, sia nella sua dimensione militare che dovrà finire, che in quella civile che deve ripensarsi e rafforzarsi. Per Sergi «la lieve riduzione del personale militare italiano da 4200 a 4000 unità sembra confermare una continuità basata su una visione alquanto acritica, che non tiene nel dovuto conto i segnali che giungono dagli afgani e i limiti di una presenza (non solo italiana ma anche internazionale) che non riesce a valutarsi, riconoscere gli errori, modificarsi e riprogrammarsi».

L’Italia potrebbe dare un maggiore contributo per delineare tale strategia nel nuovo e diverso contesto afgano e in quello regionale. «Non ci sembra che l’abbia fatto, in modo convinto e con risultati, in sede Nato, mentre da parte governativa sono stati enfatizzati i successi e gli apprezzamenti, veri o presunti che fossero, nascondendo talvolta la verità e non dando peso alle varie intuizioni e proposte, come quella del dialogo politico con i Talebani o del rafforzamento della cooperazione civile, che avrebbero potuto contribuire ad una svolta già anni fa», accusa Sergi. Che conlude spiegando come «la percezione afgana della presenza militare internazionale, anche quando ritenuta necessaria, non è positiva. Una recente ricerca promossa da Intersos su tale percezione lo dimostra. Occorrerà ora che si incominci a tenerne conto seriamente e con un maggiore grado di umiltà: la percezione afgana può infatti contribuire a guidare la fase di passaggio e di strategia di uscita. Questa dovrebbe a nostro avviso iniziare quanto prima, con il segnale dell’immediato smantellamento della base del PRT nel centro cittadino di Herat, una base militare fortificata osteggiata dalla popolazione e da esponenti sociali e religiosi, e seguire due direttrici: l’ampliamento della formazione del personale della sicurezza afgano, limitando la presenza militare italiana ai soli istruttori e alla loro sicurezza, e un deciso e sostanzioso programma di aiuto allo sviluppo (dieci volte superiore a quanto stabilito dal decreto) che veda gli afgani, le istituzioni ma anche la società civile organizzata, come principali attori e decisori».

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