Cultura

Missione estrema

L’uccisione del vescovo in Kenya alza il velo su una condizione sempre più a rischio, quella dei sacerdoti impegnati sulla frontiera dei Paesi più poveri. Parla Kizito Sesana

di Joshua Massarenti

«Il delitto di monsignor Luigi Locati ha scosso un po? tutti. Alcuni diranno che sono i rischi della nostra attività, ma forse vale pena riflettere sul fatto che ancora oggi i missionari sono le sentinelle della pace più esposte nei conflitti africani». Padre Kizito Sesana non ne fa una questione personale. «Siamo in tanti a girare l?Africa con il tentativo di coltivare ciò che di buono riusciamo a seminare, cioè la pace e il benessere per tutti». Cristiano per ispirazione e missionario comboniano per vocazione, padre Kizito ha passato una vita a convivere giorno dopo giorno con la violenza che contraddistingue le sue terre di adozione: Nairobi, la capitale del Kenya, e poco più a nord il Sudan. Assieme al fondatore dell?associazione Amani, Vita ha cercato di cogliere i limiti e le sfide dell?essere missionario nei teatri di guerra africana. Cos?è cambiato rispetto ieri, ma soprattutto che responsabilità deve assumersi un missionario in quei posti dimenticati da Dio: predicare la buona parola oppure costruire la pace? Vita: Padre Kizito, al giorno d?oggi cosa significa essere missionario? Kizito Sesana: È una domanda molto difficile. Più gli anni passano, più mi rendo conto che il tentativo di tracciare linee distinte tra l?attività di evangelizzazione e quella politica non mi serve assolutamente a nulla. Anzi, io questa distinzione non la vedo più. Vita: Era una distinzione che aveva netta nel passato? Kizito: No, ma mi sembrava che la linea di demarcazione tra il predicare la domenica e lo svolgere attività per la pace fosse un po? più chiara. Sino al 1974 si è detto che lavorare per la giustizia fosse parte costitutiva dell?evangelizzazione. Allora mi sembrava un?affermazione importante, quasi una cosa acquisita. Ma oggi la prospettiva è totalmente cambiata. Se io a Nairobi faccio un lavoro di riconciliazione tra due comunità di rifugiati senza parlare mai di Dio e del Vangelo, non torno a casa con l?angoscia di non aver fatto evangelizzazione. Non solo non nutro quest?angoscia, ma non mi passa nemmeno per la testa. L?unica differenza che denoto è il contesto in cui opero che è in maggioranza non cristiano. Vita: E allora cosa significa evangelizzare per un missionario in contesti critici come quelli in cui viveva il vescovo Locati? Kizito: Fare evangelizzazione è vivere e reagire da cristiani in una determinazione situazione. Per il resto, il lavoro che sto svolgendo qui a Nairobi o in Sud Sudan lo potrebbe fare un laico. Non è neccessario essere prete o missionario per seminare la pace tra due comunità che litigano fra loro. Vita: Ma quando celebra i sacramenti fa ilprete, mica il laico… Kizito: Certo. Ma più che l?attività sacerdotale in sé e per sé, mi preme di più comportarmi al quotidiano con nella mano e nel cuore il vangelo. Che poi è una vocazione di tutti i cristiani, non una prerogativa dei missionari. A spingermi a questa riflessione sono i contesti di estrema fragilità in cui lavoro e vivo, dove il flusso della vita muta in continuazione, dove del domani non si può avere nessuna certezza. A mio avviso, porsi di fronte a scenari di violenza con categorie interpretative precostituite non porta da nessuna parte. Credo che rispetto a ieri, abbiamo idee meno chiare, ma ci rivolgiamo alle comunità con più generosità. In questo la Chiesa è all?avanguardia rispetto ad altri attori presenti in Africa. Vita: Ma così esclude le ong, i volontari. Non è un po? presuntuoso? Kizito: Alle ong riconosco un alto livello di professionalità che negli ultimi decenni si sono guadagnate sul terreno. Ma nonostante l?impegno di decine di migliaia di volontari e professionisti del non profit in Africa, non credo che la loro devozione possa essere equiparata a quella di un missionario. Ancora oggi, sfido chiunque a rimanere per trent?anni alla guida di una diocesi situata in un angolo sperduto del continente africano. Isiolo, Gulu, Torit, sono tutte aree in cui le condizioni fisiche e psichiche sono di spaventosa ostilità. Chi, se non i preti e i missionari laici consentono di rimanervi per decenni affiancando i più deboli? Pochi, pochissimi. Vita: Infatti si ha l?impressione che il missionario continui a operare nella più completa solitudine. Eppure si sono intensificate le missioni di pace, la presenza dei caschi blu è aumentata e così via? Kizito: L?Africa è vastissima, e a ben vedere l?Onu, così come le ong e gli organismi internazionali, non sono presenti ovunque. Si parla di Costa d?Avorio, di Congo, di Sudan, ma anche in quei Paesi sono infinite le aree che, abbandonate dalla comunità internazionale, si contraddistinguono per la presenza dei missionari. E lo stesso discorso vale per il Kenya. Quanti sono i missionari che operano in contesti di estrema precarietà? Tanti. Ma come trenta, quarant?anni fa, agiscono nella più completa solitudine. Essendo gli unici ad esporsi, aumentano le loro probabilità di fare la stessa fine di monsignor Locati. Per contattare padre Kizito: amani@amaniforafrica.org Chi era Locati Tutta una vita per il Kenya Monsignor LUIGI LOCATI era nato il 23 luglio 1928 a Vinzaglio, nell’arcidiocesi di Vercelli. Dagli inizi degli anni 60 era in Kenya come sacerdote ?fidei donum?. Nell?allora diocesi di Meru, fondò nel 1963 la prima parrocchia con l?intento di favorire le comunità cristiane, minoritarie in un?area prevalentemente musulmana, nonché i più deboli nell?accesso all?istruzione e alla formazione. Dotato di una forte personalità, Locati viene consacrato nel 1996 vescovo presso la missione di Isiolo, nel Kenya nord-orientale, eretta l?anno precedente a vicariato apostolico. «Era tornato il mese scorso in Italia», ricorda Franco Givone, direttore del Centro missionario di Vercelli. «Diceva a tutti che voleva continuare a svolgere la sua missione in Kenya fino alla morte».


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA