Politica
Mirafiori e l’irrilevanza della politica
La vigilia delle elezioni fotografa da un sociologo e antropologo che vive nello storico quartiere operario della periferia di Torino: "Si è interrotta la cinghia di trasmissione che collegava la base, ai corpi intermedi e ai vertici istituzionali sostituita dai sondaggi dove non c’è spazio per il confronto, per cambiare opinione, per comprendere il punto di vista dell’altro"
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Sentendo parlare un parlamentare del Partito Democratico ne ho colto l’impressione di una persona preparata e sincera convinta del suo impegno, ma con un intento (quasi)salvifico, come se tutto dipendesse dalla politica: come se l’Italia fosse tutta sulle spalle della politica.
D’altra parte parlando con i miei vicini di Mirafiori, la gente del quartiere, sento che le persone pensano che i politici non fanno niente, che la politica non serva a risolvere i loro problemi. Una distanza che porta poi le persone a non votare perché la ritiene «un’inutile perdita di tempo», non c’è più spazio per le parole nella testa delle persone ormai possono passare solo file zippati (o prêt-à-porter).
C’è in questo un rischio Tunisia, la richiesta implicita di una figura forte che risolva subito i problemi, mentre la democrazia è in sé lenta, richiede dialogo, partecipazione, ma le persone non si sentono interpellate, le liste bloccate, i nominati dai partiti stanno portando a non apprezzare più il vivere in un Paese democratico a non cogliere la differenza tra democrazia e autocrazia. Si è interrotta la cinghia di trasmissione che collegava la base, ai corpi intermedi e ai vertici istituzionali sostituita dai sondaggi dove non c’è spazio per il confronto, per cambiare opinione, per comprendere il punto di vista dell’altro. La perdita di copie dei giornali e gli slogan hanno fatto il resto. E a questo punto che questa distanza incrementa ulteriormente la disaffezione e l’astensionismo eppure forse conviene tornare alle origini, leggere le lettere dei condannati a morte, migliaia di uomini e donne, che si sono sacrificate perché oggi possiamo parlare, scrivere, muoverci, contestare. «Affronterò, scriveva Antonio Fabbri il 24 settembre 1943, fra poche ore la morte col sorriso sulle labbra, e non una ma dieci volte darei la mia vita per la salvezza dell’Italia». Ora.
Foto: capannone dismesso a Mirafiori (Torino)
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