Cultura

Miracoli e martirio del prete di frontiera

Li accoglieva nei locali della sua parrocchia.Cominciò 12 anni fa,quasi per caso:al confine arrivavano 100 stranieri al giorno, espulsi o respinti dalla Svizzera.

di Gabriella Meroni

La torre dove don Renzo ricoverava gli immigrati è chiusa dalla notte in cui è stato ucciso, il 20 gennaio. Quella torre grigia, imitazione fallita di un campanile, appiccicata alla chiesa di cemento di Ponte Chiasso si trasformava ogni notte nel rifugio dei profughi che tentavano di passare la frontiera e andare in Svizzera. Due appartamentini l?uno sopra l?altro arredati con otto letti, una sala da pranzo, un bagno. Quella notte gli immigrati se ne sono andati via in fretta e furia dimenticando i vestiti e le scarpe che chissà chi verrà a riprendere. Anche l?obiettore che li assisteva è tornato a casa in licenza. Don Giovanni Meroni, il giovane vicario di don Renzo, ci accompagna su e giù per le scale vuote e poi a vedere l?altro locale in cui dormivano i profughi: una stanza proprio accanto al portone centrale della chiesa, ancora piena di materassi, coperte sporche, stracci. C?è una gran puzza, non ci sono finestre. Qui stavano dieci, forse venti persone alla volta, ma sempre meglio che rimanere fuori al freddo. «Pensavo che prima o poi mi sarebbe successo qualcosa di brutto, con tutti questi ?extra? in giro», dice don Giovanni. «E invece è successo a don Renzo. Lui è in paradiso, e sicuramente sta meglio di me. Come vorrei essere con lui». “Non lo aiutavo, non ero d?accordo” Don Renzo Beretta se n?è andato e tutto è cambiato a Ponte Chiasso: più che un paese, quattro case di qui e quattro di là con in mezzo la frontiera, due bar, un minuscolo giardino pubblico e la chiesa. Gruppi di profughi stanno seduti ancora lì dove don Renzo li radunava ogni sera alle nove. Dicono di chiamarsi Shwan, Aziz, Wsman, Amanj, Rziyar, vengono dal Kurdistan iracheno. La loro meta è la Svizzera, aspettano i passatori che il mattino dopo li porteranno oltre frontiera. Non è il primo viaggio: ciascuno di loro è già respinto cinque o sei volte. C?è anche una famiglia di kosovari, tre adulti e tre piccoli, l?ultimo sta attaccato al seno della mamma che lo allatta anche se avrà già più di due anni, al freddo. Don Giovanni li guarda e chiama la polizia: «Per favore venite a prenderli, ci sono anche dei bambini». Perché don Giovanni non è don Renzo. «Io sono piccolo, troppo piccolo», dice, senza nascondere la sofferenza dietro gli occhiali scuri. «Non lo aiutavo con gli ?extra? perché non ero d?accordo e perché avevo paura. Non ero d?accordo perché secondo me ci deve pensare lo Stato, e quanto alla paura adesso so che avevo ragione. Ma anche don Renzo aveva paura, per lui ma soprattutto per me. Infatti non mi ha mai chiesto di dargli una mano. Era fatto così. Faceva tutto lui. Aveva chiesto mille volte allo Stato, alle Istituzioni di intervenire, e intanto andava avanti. Ma lo faceva perché credeva in Gesù, se togliamo Cristo dalla sua opera non sta più in piedi». Se don Beretta era solo, oggi don Giovanni lo è ancora di più. Anche se i parrocchiani gli vogliono bene. Ma quello che è successo resta troppo per i suoi 32 anni, di cui molti passati a fare il cerimoniere del vescovo, tra altare e incenso. «I santi rendono la vita impossibile ai loro collaboratori», sussurra. «Alla sera stavo dietro la porta quando qualcuno suonava, ero terrorizzato, lui invece apriva subito». Adesso cosa farà? «Alle tre ho il catechismo dei bambini, domani un funerale. C?è una parrocchia da mandare avanti. E devo cercare di dormire». Koch e Dimitri, gli amici svizzeri Quelli che non dormono mai, invece, sulla frontiera del Ticino sono i passatori, gli scafisti della montagna che ogni giorno portano i profughi in Svizzera. Per soldi. Un mercato che si svolge sotto gli occhi di tutti, davanti alle stazioni ferroviarie, all?imbarcadero dei traghetti, perfino nella chiesa di don Renzo. Lui non guardava in faccia a nessuno, non chiedeva i documenti, così un passatore a volte riusciva a infilarsi nella torre dove era sicuro di trovare i clienti giusti. Ma se per don Renzo i trafficanti di uomini si mascheravano da poveri, per lo Stato sono ancora oggi ombre impossibili da colpire. E così la tratta continua: nel ?98 la Svizzera ha registrato 42 mila ingressi illegali e 120 mila espulsioni, quasi tutte verso l?Italia. Un flusso inarrestabile che in ottobre e novembre faceva arrivare a Ponte Chiasso 100 immigrati al giorno. Niente di strano: l?80% dei profughi d?Europa è passato o passerà di qui. «La colpa è della Svizzera che ha la legge sui rifugiati più restrittiva del mondo», accusa padre Cornelius Koch, svizzero doc e incaricato dal vescovo di Ginevra all?aiuto degli immigrati. Dodici anni fa chiese a don Beretta se poteva ?prestargli? una stanza per ospitare i profughi. Don Renzo gli aprì la chiesa e da allora hanno sempre lavorato insieme. «È una vergogna: gli espulsi vanno riaccompagnati a casa loro, non in Italia. Il vostro Paese non se ne può far carico da solo. Don Beretta faceva comodo a molti: innanzitutto alle autorità pubbliche, perché senza di lui ci sarebbe stata più criminalità. Dopo la sua morte qui in Svizzera c?è stato una specie di lutto nazionale, che però nasconde la nostra cattiva coscienza». Koch spediva denaro e coperte a Don Renzo con l?aiuto di 15 volontari e dei suoi 10 mila sostenitori elvetici, tra cui il celebre clown Dimitri e l?architetto Mario Botta. «Che questa morte non sia l?inizio della fine del volontariato» si preoccupa padre Cornelius. Un rischio concreto in una nazione che ha da poco sepolto un altro martire della solidarietà, il maestro elementare Paul Spirig di San Gallo ucciso dal padre di una bambina kurda che aveva cercato invano di riportare in classe. «Ma lasciare la solidarietà per paura sarebbe un delitto contro migliaia di persone oneste in cerca d?aiuto». Sulla piazza, in attesa dei “passatori”Intanto sulla piazzetta della chiesa di Ponte Chiasso gli immigrati non ci sono più. La polizia è arrivata e li ha portati via, nei centri di accoglienza della prefettura di Como. Che però rimangono clamorosamente vuoti: un po? perché possono accogliere solo rifugiati politici, un po? perché gli stessi immigrati preferiscono stare sulla piazza in attesa dei passatori. Nel centro di Sagnino, sopra Ponte Chiasso, ci sono 15 persone (per lo più donne e bambini) contro una capienza di 50, a Tavernola una trentina su oltre 100 posti disponibili. Don Renzo aveva colmato il bisogno vero: un tetto vicino alla frontiera e lontano dalla polizia. Una carità, la sua, senza condizioni. Come dovrebbe essere la carità. Anche a costo della vita? «Il Vangelo se è vissuto fino in fondo ti sbatte sempre in prima linea», risponde don Battista Galli, direttore della Caritas di Como. «Anzi, ti candida a dare la vita. Questo non significa però che la morte di don Renzo non abbia colpevoli. E i veri colpevoli siamo noi con la nostra mediocrità, con il nostro ?non tocca a me?, con il nostro buon senso. Poi è vero che certe situazioni, come il lavoro con gli immigrati, sono a rischio. Ci sono popoli che per tradizione non sanno cos?è la gratitudine. E poi c?è il problema dei passatori che lo Stato non colpisce. È assurdo. Sono dei banditi e devono essere fermati subito. Se non bastano le buone, anche con le cattive. Ma lo deve fare lo Stato, non i preti. A noi tocca dare da mangiare agli affamati». Come faceva don Renzo. «Don Renzo era un prete particolare. È stato il mio modello, da sempre. L?ho conosciuto che avevo solo sette anni e subito mi ha conquistato. La mia vocazione la devo a lui». Eppure questo piccolo parroco di montagna (nato a Como, aveva sempre retto parrocchie di paese, da Livigno a Mandello, da Solzago a Ponte Chiasso dove si trovava da 17 anni) non aveva mai fatto nulla di diverso dagli altri parroci. «Per questo è stato eccezionale», riprende don Galli. «Il suo impegno con gli immigrati era nato così, spontaneamente, come un?emergenza che aveva toccato la sua parrocchia. Nessun progetto, nessun protagonismo. Adesso stiamo cercando un parroco che possa sostituirlo, ma non sarà facile». Forse perché i preti cominciano ad avere paura? «Prendersela col prete è facile. Siamo dei bersagli. I seminaristi cominciano a pensarci, ma ci pensano soprattutto i loro genitori: qualcuno già mi dice ?padre non è che il mio ragazzo lo mandate a morire??. Forse sono battute, però… Ma non dimenticherò mai quello che diceva don Renzo: o ci pensiamo noi a questi ragazzi, o i passatori sono meglio di noi, perché almeno loro ci pensano». ha collaborato Stefano Ferrari


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