Famiglia

Mio padre in coma ha pianto da nonno

Il professor Francesco De Ponte era in coma da quando uno squilibrato gli aveva sparato alla testa. Intervista a Marco De Ponte.

di Paolo Manzo

Marco De Ponte lo conosciamo bene. Perché è segretario generale di ActionAid International, che fa parte del Comitato editoriale di Vita; perché è sempre disponibile con i giornalisti, tutti, senza eccezioni, perché è una giovane ?testa pensante?, merce rara in una società dove i quaquaraqua sono sempre più numerosi. Marco chiarisce che per lui questa resta una vicenda privata: non è nella sua veste istituzionale che ci parla, ma come semplice amico. Marco è figlio di Francesco De Ponte, docente all?università di Padova, che il 5 marzo 1999 rimase colpito alla testa da un colpo di pistola sparato da un folle. Da allora non si è mai ripreso. «Coma vigile», spiega Marco. Sino al 22 marzo scorso, quando la morte se l?è portato via. Vita: Cosa significa coma vigile? Marco De Ponte: L?unica cosa che poteva muovere erano gli occhi, ma il grosso punto di domanda per noi, anche da un punto di vista etico, è stato capire che cosa percepisse. La più accreditata delle ipotesi è che avesse una percezione di tipo emotivo, ma non in grado di elaborare formulando pensieri del tipo «mi stanno accarezzando», «mi stanno parlando», «questo è Marco», «questa è mia moglie». Non un pensiero di tipo complesso ma, per l?appunto, di tipo emotivo. Io ho avuto un figlio da poco: la prima volta che l?ho portato da suo nonno, mio papà si è messo a piangere. Per cui sei sempre lì sul filo di lana e non sai come funziona. Per noi capire le sue percezioni è stato sempre il punto di domanda più grosso. La parte più faticosa? Vita: Come ha vissuto questi sei anni suo padre? De Ponte: Lui non era, come si dice in gergo, ?attaccato alle macchine?. Nonostante la tracheotomia, respirava autonomamente. I suoi polmoni funzionavano, il suo cuore ha battuto benissimo fino all?ultimo, perché aveva un fisico sano. Ovviamente era nutrito artificialmente. Nei suoi ultimi giorni di vita è stato sottoposto a cure palliative. I medici ci avevano detto che togliere l?acqua o il cibo provoca una morte di sofferenza. I media parlano di Terri Schiavo spiegando che le si è tolto il cibo: non sono in grado di giudicare e non spetta a me farlo, ma noi non siamo mai giunti a questo punto anche se, negli ultimi mesi, abbiamo chiesto ai medici di non accanirsi su di lui con cure inappropriate. Credo che qualunque scelta dovrebbe essere comunque affrontata nell?interesse del malato, guardando le cose con gli occhi di chi, legato al malato stesso, è pronto a fare valutazioni non solo tecniche. Vita: Qual è stata la causa del decesso? De Ponte: Setticemia. Del resto, quando uno ha un sondino nello stomaco, la tracheotomia e le flebo, di che cosa muore se non d?infezione? Negli ultimi sei anni, con una frequenza sempre più intensa, dalla casa di riposo mio padre finiva sempre più spesso in ospedale. Dove, automaticamente, lo curavano con antibiotici. E lì la domanda è: con gli antibiotici qualunque infezione può sembrare facilmente controllabile. Ma in un paziente come mio padre che senso aveva curare il problema del momento per restituirlo a una vita come quella che faceva? E così da due anni avevamo deciso di curarlo solo con cure palliative. Vita: Ci parli del vostro rapporto con i medici. De Ponte: È stato molto difficile, anche se dipende con quali. La medicina ordinaria non aiuta né i parenti, né le persone che si trovano in queste situazioni. All?ospedale i medici ti curano perché, sostengono, «tu sei venuto in ospedale per curarti». E ti curano ad antibiotici, come se il tuo caso fosse tecnicamente separato dalla vita che avrai dopo o che avevi prima. E, nonostante tu abbia detto e scritto «non curatelo con gli antibiotici», loro lo fanno. Perché così prevede la prassi. Ci tenevamo a che mio padre se ne andasse senza soffrire? Poi abbiamo avuto modo di conoscere alcune persone specializzate in terapia del dolore che soprattutto negli ultimi giorni ci hanno aiutato molto. Gli hanno somministrato quello che può rendere un decesso meno doloroso? Questo sforzo fatto insieme ai medici aiuta anche i parenti a superare le difficoltà che si possono immaginare. Vita: Una grossa responsabilità quella di interrompere la somministrazione di antibiotici? De Ponte: Sì, ma quando ci siamo trovati a prendere questa decisione, lo abbiamo fatto nell?interesse del papà. Perché una persona che sta lì per sei anni, senza avere nulla della propria vita in mano, con un corpo martoriato, ci sembrava che? Certo, alcuni ti dicono che hai deciso per un altro, però è vero che anche curando una persona decidi per un altro. Perché nemmeno quello è un decorso naturale. Tecnicamente parlando. Vita: Umanamente che cosa ti ha insegnato questa vicenda? De Ponte: Non lo so. Ti posso dire semplicemente che a me di mio papà resta l?esempio della persona che è stato prima che avesse quell?incidente. Durante gli anni della malattia, abbiamo cercato di dare sempre a papà una sua dignità, e così lui ci ha offerto un esempio anche da malato. Sul piano umano, i dibattiti che si fanno su stampa e in tv sono su casi tutti diversi uno dall?altro. Ed è molto difficile capire che cos?è meglio, finché non ci sei dentro. Si è soli con la propria coscienza. Da un punto di vista umano questi drammi non colpiscono solo chi ne rimane vittima, ma tutta la famiglia, e per me, paradossalmente, la preoccupazione principale in questo periodo è stata mia mamma, non mio padre. Credo che succeda sempre così, con qualcuno che si strugge al fianco della persona colpita. Vita: L?ultima domanda che devo farti è sul costo, per la famiglia, di un malato in coma vigile? De Ponte: Un sistema sociale che possa dare delle garanzie in questo tipo di situazione si rivela cruciale perché, purtroppo, l?impegno economico è notevole. Mio padre ha avuto i risarcimenti di un infortunio sul lavoro con invalidità riconosciuta al 100%, cosa che ci ha consentito di farlo curare in una struttura privata, piuttosto costosa, in cui potevamo farlo uscire all?aria aperta in carrozzina e altri piccoli ?lussi? di questo tenore. È importante ricordare che purtroppo non per tutti questo è possibile, e anche nella sofferenza a volte il nostro mondo non permette di essere davvero uguali.

ha collaborato Joshua Massarenti


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