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«Mio figlio hikikomori»

Dodici anni trascorsi ad aspettare che tuo figlio apra quella porta e condivida con te le sue ansie possono diventare un vero incubo. Un'angoscia che, per l'attrice siciliana Lucia Sardo, si è dovuta trasformare in un percorso di consapevolezza, anche grazie alle buone prassi suggerite dall'associazione "Hikikomori Italia Genitori onlus”, dandole modo di raccontare la sua storia

di Gilda Sciortino

«Solo quando ho capito che dovevo stare dalla sua parte, sostenerlo e dargli ragione è cominciata a entrare la luce nella nostra vita. Gioacchino aveva conosciuto l’abisso e non lo avevo compreso».

Nota al grande pubblico per avere interpretato Felicia Bartolotta, la madre di Peppino Impastato ne “I cento passi” di Marco Tullio Giordana, importanti ruoli ne “La ribelle” e “Le buttare” dello stesso regista, come anche neLa discesa di Aclà a Floristella” di Auelio Grimaldi, ma solo per fare qualche esempio, Lucia Sardo ha percorso quella strada che dalla disperazione può portare sino al limite del baratro.

«Un incubo durato 12 anni – racconta la Sardo – intanto perché nessuno ti dice che tuo figlio è un hikikomori. Io l’ho scoperto cercando disperatamente in rete. Sono uscita dalla solitudine nella quale ero piombata quando ho conosciuto l’associazione “Hikikomori Italia Genitori onlus” . Perché, poi, il problema non è così palese; non è che c’è un figlio che ha una gamba rotta, sei lì a cercare una risposta a quel suo chiudersi sempre di più in sé stesso, a non volere più contatti con nessuno. Allora provi a motivarlo, cerchi di incentivarlo, ma niente, peggiori solamente la situazione. Quando capisci che non funziona ecco che arriva la rabbia, poi quando neanche questa ha efficacia provi con la dolcezza. È un’altalena di emozioni che ti può distruggere. Si potrebbe fare un film. Inoltre, quando tutto comincia non ne hai consapevolezza. Per questo dico che bisogna stimolare le scuole molto prima che i genitori».

Istituzione scolastica che, infatti, riesce a peggiorare la situazione.

«Gioacchino è sempre stato molto bravo a scuola, un ragazzino intelligente che socializzava con tutti. Per questo, quando quasi sul finire dell’anno scolastico vidi i voti bassi che aveva riportato, andai a parare con la professoressa la quale mi disse con molta serenità che “dormiva sempre”. “Ma come? – replicai io – non me lo poteva dire prima?”. Solo dopo capii che stava sveglio tutta la notte chattando al computer e parlando con il mondo. Non a caso è diventato uno dei 7 campioni di videogiochi a livello mondiale. Ovviamente, andando a letto alle 7 del mattino, quando lo chiamavo dopo mezz’ora per dirgli che era ora di andare a scuola, non poteva mai essere presente a se stesso. Lo bocciarono quell’anno e anche l’anno successivo, nonostante mi avessero assicurato che non sarebbe successo».

Da quel momento ha inizio l’odissea infernale di Lucia e di Gioacchino, anche lui una carriera nel mondo del teatro come regista e attore.

«Da madre lo capivo che mio figlio aveva un malessere spaventoso, ma non sapevo come aiutarlo. Era una lenta ma progressiva discesa negli inferi. Un continuo no: no al cibo, no alle parole, no a tutto. Giravo un film importante, magari con un regista che lui amava, e al mio invito di venire a trovarmi sul set mi diceva “No”. Prima mangiava pochissimo, dimagrendo a vista d’occhio, poi la tappa successiva, quella del cibo spazzatura che si faceva portare a domicilio. Non si sedeva, però, mai a tavola con me e, se gli chiedevo qualcosa, mi rispondeva malamente. Una situazione nella quale sei da sola anche perché tutti ti rimproverano, dicendoti che devi essere più dura, considerando questi ragazzi solo pigri, svogliati e incapaci di fare qualcosa. Invece, i giovani hikikomori sono molto più sensibili di altri, hanno solo bisogno di essere compresi. Quello che mi scioccava era non trovare vie d’uscita. Non c’era Pasqua, non c’era Natale o Capodanno, altro che estate e divertimenti. È stata una lunghissima notte durata 12 anni, durante la quale avrei voluto solamente morire».

Se Gioacchino stava sveglio tutta la notte, neanche Lucia riusciva a pacificarsi, così le estenuanti ricerche sul web la fanno approdare all’associazione “Hikikomori Italia Genitori”.

«Avevo anche cercato all’estero perché neanche gli psicologi che lo hanno incontrato sapevano dare le risposte giuste. Per loro Gioacchino stava bene, erano i normali turbamenti di un adolescente. Un’adolescenza che non finiva mai. Per anni mi sono sentita in colpa, inadeguata. Come dissi a un preside: “Io mi assumo la responsabilità di non essere una buona madre, mio figlio di non essere uno studente modello, ma lei deve riconoscere di non sapere dirigere la sua scuola. Non si trattano così le anime, non si buttano nella spazzatura come avete fatto voi”. Ci fu anche un professore del suo lo Scientifico Statale “Enrico Boggio Lera” di Catania, che decise di dichiarare guerra a Gioacchino perché in classe teneva in testa il cappello. Non considerava minimamente il fatto che avevamo cambiato città, che io e mio marito ci eravamo separati e che mio fratello era morto da pochi mesi. Quel cappello era come la copertina di Linus, ma per lui, docente, adulto, era solo una sfida che innescava un gioco di potere».

Quando Lucia capisce che da sola non ce la può fare chiede aiuto, avviando un nuovo percorso di consapevolezza.

«Dovevo a tutti i costi fare in modo che quella porta, dietro alla quale Gioacchino aveva costruito il suo mondo, venisse aperta. L’unico modo per mantenere un contatto con lui era WhatsApp, ai cui messaggi mi rispondeva. Il cambiamento forte, reale ebbe inizio quando cominciai a introdurre le buone prassi, comportamenti consigliati e da evitare che l’associazione suggerisce per evitare di generare nei ragazzi ulteriori chiusure e aggravare la loro condizione di isolamento. Mi sono resa conto che, sino ad allora, mi ero vista come povera vittima, non guardando e non accogliendo la sua sofferenza. Mio figlio aveva bisogno semplicemente di una mamma, capace di sostenerlo in tutto e per tutto. Piano piano ha cominciato a uscire dalla sua stanza e ad aprirsi al contatto».

È anche grazie alla pandemia che la situazione migliora sensibilmente giorno dopo giorno.

«Il lockdown ha aiutato tantissimo gli hikikomori perché hanno compreso di non essere gli unici rimasti isolati. Noi abbiamo usato il tempo a nostra disposizione per dedicarci, per esempio, alla cucina. Gioacchino ha anche ideato una trasmissione durante la quale ci divertivamo a preparare piatti che poi, una volta spenti i riflettori, gustavano insieme. È cambiato anche il nostro rapporto perché abbiamo rivisto tutto sotto un’altra dimensione. Oggi ne parlo con gioia, anche se non potrò mai dimenticare quel che ci è accaduto. Dico ai genitori come me di chiedere aiuto, così come è importante che la scuola cominci a studiare perché non sono malati i ragazzi, malata è la società. Loro ci stanno dando segnali immensi che dobbiamo accogliere. Per me è una liberazione raccontare oggi la nostra storia perché anche io sono uscita da quella stanza oscura. La mia vita ora risplende anche della luce che emana mio figlio».

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