Giornata contro il bullismo
Aiuto, mio figlio è un bullo
Può capitare che, nonostante tutte le prediche, ad essere un bullo sia proprio nostro figlio. Punire non serve a niente, né è utile cercare da soli di mettere una toppa con la famiglia della vittima. Per aiutare un ragazzo a cambiare serve ripartire da noi come famiglia. Intervista a Silvio Ciappi, criminologo e psicoterapeuta specializzato in giustizia riparativa
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Come comportarsi se il bullo è il proprio figlio? Bene i consigli per i genitori delle vittime (qui per esempio quelli di Stefano Rossi), ma che fare quando ci si trova con la consapevolezza che è il proprio ragazzo a prevaricare gli altri? La risposta, straordinariamente, è simile sia che ci si trovi da una parte che dall’altra. Servono ascolto e attenzione. Criminalizzare e punire, invece, non produce risultati. Parola di Silvio Ciappi, criminologo e psicoterapeuta specializzato in giustizia riparativa.
Ciappi, cosa dovrebbero fare i genitori di un ragazzo che si comporta da bullo?
Per arginare il bullismo, che è una sorta di violenza tra coetanei, dobbiamo far respirare il più possibile nell’ambiente di casa un clima non violento. Questo cosa significa? Vuol dire evitare la violenza verbale e nelle relazioni. Un altro consiglio è quello di non sentirsi un genitore dimezzato se si chiede aiuto a una figura competente, per esempio uno psicologo. Bisogna riuscire ad andarci insieme, perché è un problema che riguarda tutta la famiglia. Dietro l’agito di un adolescente c’è sempre tutto il sistema familiare.
Il bullismo viene da situazioni vissute a in famiglia, anche nella forma della trascuratezza emotiva. Generalmente in casa oggi si parla molto poco del vissuto emotivo dei ragazzi. La famiglia è diventata un luogo di incontro economico, più che emotivo
Quindi secondo lei il bullismo può venire spesso da situazioni vissute a in famiglia?
In buona parte. Anche nella forma più indiretta, di trascuratezza emotiva. Generalmente oggi si parla molto poco in casa del vissuto emotivo dei ragazzi. La famiglia è diventata un luogo di incontro economico, più che emotivo. Dobbiamo entrare nella sfera di questi adolescenti, fatta di un mondo nel quale da una parte si parla il linguaggio della pazienza, della calma, dello studiare a suola, del tempo lungo e del futuro, dall’altra si scrolla velocemente da una notizia all’altra, da una relazione all’altra. Per loro il secondo aspetto è molto più autentico e vero, non c’è spazio per l’elaborazione dei sentimenti di dolore, di perdita. La testa di un ragazzo è una galassia, non è facile entrarci, soprattutto a livello di emozioni, a volte ruvide, nascoste. Per farlo, dobbiamo – e lo dico da genitore – educare all’etica della non violenza nelle relazioni, che non significa solo non avere in casa relazioni abusanti, ma anche evitare la trascuratezza. Non guardare tutto il tempo il cellulare, per esempio, ma sforzarsi di trovare assieme dei momenti per parlare. Questi ragazzi hanno un bisogno estremo di parlare, di incontro, di appartenenza in un mondo che l’appartenenza non te la garantisce più.
Per arginare il bullismo, che è una sorta di violenza tra coetanei, dobbiamo far respirare il più possibile nell’ambiente di casa un clima non violento
Altrimenti cosa può succedere?
Altrimenti la risposta è il branco, che è una nuova forma di comunità – lo dico tra virgolette – e di aggregazione dei giovani. Uno dei moventi è la noia, uno sbadiglio nei confronti del mondo. Poi c’è la questione dell’apparenza agli occhi del mondo, che ora passa attraverso il cellulare e i social. Questo determina una solitudine digitale, dalla quale spesso la violenza e l’etica della sopraffazione costituiscono una possibilità di uscita. In realtà nelle azioni di questi ragazzi si nasconde un isolamento e un dolore di fondo.
Sgridare, punire e criminalizzare non serve quindi?
No, perché produce rabbia addizionale. Il primo approccio, come in tutte le cose, deve essere morbido, basato sul fatto che siamo davanti a un problema che dobbiamo risolvere tutti insieme e che ci riguarda tutti. Questo non significa giustificazionismo, significa comprensione.
Significa anche mettersi in discussione?
Sicuramente.
Qual è il percorso una volta che si arriva da un professionista?
C’è un aiuto a vedere quello che io chiamo “il germe” del comportamento deviante. Dobbiamo sempre andare all’origine, vedere da dove deriva una situazione. Un bravo terapeuta sa individuare quel punto, magari sconosciuto, magari rimosso perché scomodo, nel quale è nato l’atto violento, che viene sempre da una ferita profonda. La sopraffazione è una sorta di orgoglio smisurato, un riaffermare in maniera violenta ciò che siamo; questo scaturisce però da un senso di grande umiliazione. Che può derivare anche dal fatto di non sentirsi sufficientemente ascoltati.
L’atto violento viene sempre da una ferita profonda. La sopraffazione un riaffermare in maniera violenta ciò che siamo, che scaturisce da un senso di grande umiliazione. Che può derivare anche dal fatto di non sentirsi sufficientemente ascoltati
Anche la scuola può avere un ruolo nel supportare le famiglie?
Certo. Più volte la scuola si innesta in un percorso virtuoso con la famiglia; e può prevedere anche esperienze di incontro con la vittima.
Non consiglierebbe invece alle famiglie della vittima e del bullo di avere rapporti diretti, senza mediazione?
No, perché rischiamo che si determini una seconda vittimizzazione, serve una mediazione. È importante che si avvii un percorso di giustizia riparativa, ci sono sempre più casi in cui autore, vittima e relative famiglie si incontrano, cercano di guardarsi negli occhi, di parlare. Quello che manca oggi è il dialogo. Spesso la violenza prende il posto della parola perduta che non si riesce a pronunciare.
Foto in apertura di Road Ahead su Unsplash
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